Il 12 febbraio 2019 è stata pubblicata la analisi costi-benefici sul progetto di realizzazione della linea alta velocità Torino-Lione. L’analisi, condotta da un team di economisti ed esperti di trasporti guidati da Marco Ponti, professore ordinario di economia applicata presso il Politecnico di Milano, e accompagnata da una relazione tecnico-giuridica, ha bocciato l’opera dal momento che, secondo i calcoli effettuati, i costi per realizzarla superano i benefici di almeno sette miliardi di euro. Questo secondo l’ipotesi, come si legge nell’analisi, più “realistica”: gli altri due scenari disegnati dal documento parlano di cifre che oscillano tra un minimo di 5,7 e un massimo di 8 miliardi.
Al di là delle polemiche, delle prese di posizione e delle controdeduzioni, ciò che sembra mancare al dibattito è il contesto nel quale la linea Torino-Lione si inserirebbe. E non parliamo delle proteste sfociate in scontri aperti tra manifestanti e polizia, tra oppositori e “madamine”. Il contesto che manca è quello della pianificazione. Perché è su questa che andrebbe misurata l’utilità e l’efficienza di un mezzo di trasporto, che sia strada o – come si augurano sempre più le persone attente ai discorsi ambientali – su ferro.
L’analisi presentata si è sostanzialmente concentrata sulle due analisi che l’hanno preceduta, una pubblicata nel 2001 (dalla Cig ovvero la Conferenza intergovernativa tra Francia e Italia) e l’ultima nel 2012 (e prodotta dall’Osservatorio per l’asse ferroviario Torino-Lione) ed è partita dal calcolo del livello attuale di merci spostate sul valico alpino. Tale flusso è molto basso (3 milioni di tonnellate annue contro le 15 attestate nel 2000) e sbilanciato a favore della gomma (che rappresentata il 93 per cento del traffico merci). A partire da questi dati, l’analisi del 2011 si basa sull’assunto che il traffico merci complessivo aumenti del 2,5 per cento nei prossimi trent’anni e che la nuova ferrovia assorba il 18 per cento del traffico che oggi interessa la Svizzera, il 30 per cento del traffico stradale al confine con Ventimiglia, il 55 per cento del traforo del Frejus e il 40 per cento del Monte Bianco. Questo solo per le merci: per quanto riguarda i passaggeri, essi dovrebbero passare dagli 700 mila attuali a 5,5 milioni al 2053 (percentuale che deriverebbe da un 66 per cento di passaggio modale, ovvero da auto a treno, e un 34 per cento di domanda aggiuntiva).
Seguendo tale ipotesi, il traffico merci su rotaia dovrebbe passare da 2,7 milioni di tonnellate all’anno nel 2017 a 51,8 milioni di tonnellate nel 2059: una crescita di circa venti volte. Inoltre, il traffico di passeggeri su “lunga distanza” passerebbe da 700 mila a 4,6 milioni di persone, e quello regionale raddoppierebbe da 4 a 8 milioni. Per Marco Ponti questa previsione è troppo ottimistica, se non addirittura irreale. La nuova analisi boccia questa lettura e produce dati, secondo gli autori, più aderenti alla realtà: la loro stima prevede che il traffico merci complessivo cresca solo di una volta e mezzo all’anno, raggiungendo i 25 milioni di tonnellate all’anno nel 2059, e che quello dei passeggeri si limiti a raddoppiare sulla lunga distanza e a crescere del 25 per cento sulle tratte regionali. Ma nonostante questi calcoli, i benifici sarebbero minori dei costi.
Qualche settimana prima della pubblicazione dell’analisi costi-benefici, Anna Donati, esperta di mobilità sostenibile e coordinatrice del gruppo mobilità all’interno del Kyoto Club, e Maria Rosa Vittadini, docente di pianificazione urbanistica e membro di Legambiente, hanno firmato una nota sul sito Sbilanciamoci.info, partendo da uno studio pubblicato nel 2000 dalle due compagnie ferroviarie pubbliche (Snfc per la Francia, Ferrovie dello Stato per l’Italia). Nello studio tecnico in questione si parla di “modernizzazione” della linea già esistente al confine tra Italia e Francia, la cosiddetta “linea storica” e attraverso il quale si dimostrava che attraverso l’adozione di misure tecniche e organizzative fattibili la linea sarebbe stata in grado di trasportare 150 treni merci al giorno, pari a 20-21 milioni di tonnellate all’anno. Non ad alta velocità, ma come sostenuto dagli stessi proponenti dell’opera per risultare concorrenziale verso la strada, il traffico ferroviario merci non richiede velocità superiori a quelle ordinarie, ma maggiori capacità di trasporto.
Consideriamo che all’epoca della pubblicazione dello studio, le tonnellate erano 10 milioni l’anno. Ciò serve a capire quanto il traffico sia sensibilmente sceso da allora. Oggi infatti, come detto, si attesta intorno alle 3 milioni di tonnellate. Questo elemento è sfruttato dai sostenitori dell’opera per dimostrare come il traffico sia calato a causa della mancanza di un’infrastruttura moderna. Donati e Vittadini ci descrivono l’esempio della Svizzera, a dimostrazione che l’approccio deve essere diametralmente opposto: lo stato elvetico non ha aspettato la realizzazione di nuove infrastrutture per applicare politiche di trasferimento del trasporto merci dalla strada alla ferrovia, “ma al contrario ha messo in atto efficaci politiche di trasferimento che hanno giustificato nel tempo il potenziamento delle infrastrutture ferroviarie”. Per la Torino-Lione è una indicazione importante: “non è l’infrastruttura che genera il trasferimento, ma sono le politiche per il trasferimento che rendono necessaria l’infrastruttura“.
Per spiegare meglio il concetto, dopo il caso Svizzera, le studiose invitano a riflettere sull’uso della linea storica, quella già esistente tra Torino e Lione. Dopo quello studio “ufficiale” del 2000 presentato dalle società ferroviarie, il governo italiano scelse una linea più “slow”, del tipo che la nuova linea si sarebbe fatta, nessun arretramento quindi, ma solo “quando la linea esistente mostrerà segni di saturazione”. All’annuncio ne è seguito un altro: per recepire le indicazioni del Cipe e dell’Antitrust, l’allora governo Gentiloni assicurò lo sviluppo di un Piano Generale dei trasporti e della logistica (PGTL), con orizzonte almeno decennale, e il Documento Poliennale di Pianificazione (DPP). Annuncio completamente disatteso.
Nemmeno è stata approntata un’analisi costi-benefici sulla linea storica, sebbene secondo il regolamento CE 1315/2013, che da seguito, tra l’altro, al Libro bianco denominato “Tabella di marcia verso uno spazio unico europeo dei trasporti – Per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile”, vi sia tra i compiti assunti quello per cui “la rete transeuropea dei trasporti dovrebbe essere sviluppata attraverso la creazione di nuove infrastrutture di trasporto, il ripristino e l’ammodernamento delle infrastrutture esistenti” subordinando espressamente “la concessione di benefici europei allo svolgimento di un’analisi costi benefici” e quindi “della verifica circa l’impatto dell’eventuale produzione di gas serra derivanti dalla realizzazione o dall’ampliamento delle infrastrutture, tenendo comunque conto tra l’altro degli interessi delle comunità locali”.
Mentre nessuna strategia veniva messa in pratica per il trasferimento modale delle merci dalla strada alla ferrovia, l’aumento della capacità autostradale proseguiva con terze corsie e nuove tratte, spesso sovvenzionate con risorse pubbliche. Scrivono Donati e Vittadini: “gli investimenti sulla ferrovia, concentrati esclusivamente sull’alta velocità per i passeggeri, confinavano le merci sulle linee storiche, in una difficile convivenza con i servizi per i pendolari e con i problemi ambientali degli attraversamenti urbani”. Ne è un esempio l’autostrada del Frejus e del suo pontenziamento: “La galleria di servizio realizzata per aumentare la sicurezza in caso di incidente si è poi trasformata in corsia dedicata al transito di veicoli, aumentando la capacità di trasporto su gomma senza contingentamento per i tir e senza che alcuna tassazione di transito modello svizzero sia stata applicata per contenere tale flusso su strada”, come d’altronde richiederebbe la Convenzione di Protezione delle Alpi recepita anche nel nostro Paese. La stessa convenzione richiede l’introduzione di disincentivi al trasporto su gomma (es. ecotassa) mai nessuno ha protestato perché venissero introdotti.
Quale strategia?
Ora che l’attuale progetto Torino-Lione, così come presentato ovvero suddiviso in “fasi”, è obbligato ad appoggiarsi alla linea storica. Il ministero dei Trasporti ha ridotto i tratti di nuova linea da 82 a 32 chilometri, cancellando quindi 50 chilometri di nuova linea grazie alla scelta di utilizzare in gran parte la linea storica. La prima fase prevede la realizzazione del tunnel di base tra Italia e Francia mentre altre opere sono rimandate al 2035 e comunque solo dopo l’eventuale saturazione delle linee esistenti.
Eppure oggi la ferrovia copre meno dell’8 per cento nei valichi tra Francia e Italia, mentre copre quasi il 30 per cento nei valichi tra Austria e Italia che servono i traffici scambiati con la Germania e il nord Europa. In Svizzera la quota ferroviaria del traffico di attraversamento alpino oscilla intorno al 70 per cento. Quale strategia vorrà seguire l’Italia? Perché al momento quella annunciata, ovvero la realizzazione a tutti i costi una linea nuova e moderna, pare non porti a una saturazione delle ferrovie ma piuttosto, considerati i numeri, a quella stradale.
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