Caro Luciano Nattino, sei stato un gigante

A cura del Teatro degli Acerbi.

Luciano, grazie per averci scelti, una quindicina di anni fa, per averci regalato i momenti più intensi, artistici e profondi delle nostre vite da attori, per averci ispirato il nostro faticoso percorso «terrigno e volante», come era il tuo Vanzetti.
Grazie per i regali. I testi che hai scritto su di noi e per noi sono cose veramente nostre, doni che nessuna crisi, nessun taglio di budget, nessuna tempesta culturale, o politica potrà mai toglierci ...

Hai distillato arte, cesellando, ritoccando fino a un minuto dell’andata in scena, incasinandoci la testa. Eri teneramente maniacale perché per te le parole sono veramente sassi, e anche i corpi: dieci centimetri più vicino o più lontano, sul palco, o sulla pedana, o in mezzo a un prato sono un pianeta di significati, e tu volevi che passassero tutti. Ma tutti tutti.
Grazie per averci insegnato a sudare nel personaggio, ad ascoltare la platea, a sentire importante quello che si fa lì, a due metri dal pubblico, ma mai un centimetro sopra il pubblico.
«Io quando la gente entra, ascolto e so già come andrà lo spettacolo» dicevi. Grazie per averci insegnato a non esibirci, a spogliarci, a donarci un po’ ogni volta.

Tre zone di luce, i tagli a terra che sporcano di ombre le quinte, ma chi se ne frega, va bene così se quello che accade, accade lì, sul palco. Accade e non può esserci distrazione per due ombre, se accade.
Grazie per le bottiglie di plastica che ci hai lanciato quando, imperterriti, non facevamo quello che dovevamo, per i cristi che hai staccato quando non eravamo dove dovevamo essere, come dovevamo essere, quando non eravamo noi, quando recitavamo e non eravamo.
E poi grazie delle parole. Per quella musica che scrivevi in lettere. Che ogni volta sentirti leggere un copione per la prima volta era una sorpresa, lo leggevi tu, perché noi non sapevamo «come» lo avevi scritto, e il «come» è importante più del cosa. Era un godimento e davanti ai nostri occhi comparivano quei mondi un po’ cinematografici che tu evocavi in lettere ma poi volevi in corpi, e non eravamo sicuri di riuscire a restituirti.

Beh, hai sempre visto oltre. Oltre gli attori e oltre il pubblico e oltre il testo e oltre le luci e la musica e i corpi. Il teatro lo hai amato così profondamente da illuderti che tutti fossero così poeti e sognatori da vedere anche loro oltre. Quando non intuivamo l’oltre dei tuoi testi ci sentivamo un po’ incapaci, e siamo ancora un po’ beoti … come i tuoi ingenui «beati beoti» del «Mondo dei Vinti», lì a raccontare qualcosa che deve essere raccontato perché la memoria è un dono che deve essere conservato, la tradizione era e dev’essere sempre un «consegnare».

Tu ci hai consegnato con le tue manone un sacco di cose, alcune scivoleranno fra le nostre dita perché tutto quello che stava nelle tue manone non ci sta nelle nostre manine, altre rimarranno nel palmo, altre appese alle dita, altre incollate alla pelle, altre un po’ sotto la pelle, alcune bruceranno, altre ci faranno il solletico, altre entreranno nel sangue.
Emergeranno, emergono ogni giorno sotto forma di «ah… ecco cosa voleva dire quando diceva...», o «toh, questa è roba mia o viene da lui?». Da quando hai smesso di parlare hai iniziato a parlarci.
E poi scusa Luciano… Per non esserci stati quanto avremmo dovuto esserci o anche solo potuto esserci in questi difficili anni. Un po’ per vigliaccheria, un po’ per senso d’impotenza, un po’ perché non ci sembrava normale essere lì a farti un monologo quando eravamo abituati ad ascoltare i tuoi. Una volta ci hai tenuti seduti quattro ore (cronometrate) a spiegarci il senso di uno spettacolo che non comprendevamo, e non è chiaro se poi lo abbiamo capito.

Noi siamo normali, nel migliore dei casi, tu sei sempre stato un eroe. Hai fatto cose avanti coi tempi, con una coerenza e una purezza che ti ha lasciato intorno solo gli amici veri. Gli altri gravitavano.
Poi hai vissuto la tua malattia in una maniera talmente eroica che forse essere lì, in tua presenza, ci faceva sentire la piccolezza e l’inutilità delle nostre giustificazioni. Ci si specchiava nei tuoi occhi e non potevamo capacitarci di come riuscissero a sorridere.

Perciò scusa Luciano se siamo stati piccoli, ma tu sei stato un gigante.

Avremmo voluto dire niente, solo grazie, perché essere qua su queste pagine sembra un partecipare alla gara di quanto ti si conosceva a fondo. Sarebbero forse bastati i non detti che ci sono fra attore e regista, un legame di amore e di odio intenso come un matrimonio.
Ma un testo te lo dovevamo, dopo che ce ne hai regalati tanti. E poi ci piacciono le tue parole, struggenti e bellissime, in cui Leone dice di come il giullare di Dio se n’è andato, il finale del tuo «Francesco sulla strada».

Arrivederci «barba», scrivi qualcosa di bello per gli angeli e perdonaci anche per non aver mai saputo «ridere con lacrime», ci proveremo salutandoti.

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