di Marta Fana*
“Il fatto che gli ingegneri in Italia costino meno che altrove è un fattore di competitività del Paese, è un dato di fatto. È come quando uno dice che l'Italia ha degli asset più importanti sulle tasse. Quindi, se in una brochure il Ministero dello sviluppo economico fa notare che si spendono meno soldi nel costo del lavoro non perché c’è stato il Jobs Act, ma perché il costo del lavoro è da sempre più basso che in altri Paesi come la Germania o l'Olanda, questo è un fatto di competitività.” ...
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Sono le parole di Matteo Renzi, Presidente del Consiglio, pronunciate durante l’assemblea alla Camera dei Deputati. Poche frasi per ribadire il vulnus della politica economica del governo: la competitività in Italia si fa svalutando il lavoro, non con investimenti in ricerca e sviluppo, stimolando una volta per tutte l’innovazione. Non si diventa competitivi attraverso la programmazione economica, scegliendo chi come quanto produrre. No, in Italia la competitività sarà stimolata abbattendo il costo del lavoro con tutto ciò che ne comporta. E la prima conseguenza è necessariamente la stagnazione dei salari e dei diritti dei lavoratori. Perché, bisogna ripeterlo fino all’ultimo respiro: le tasse sul lavoro sono il valore monetario dei diritti dei lavoratori a cui le imprese dovrebbero essere chiamate a partecipare. I diritti cioè lo strumento legale attraverso cui questi ultimi possono soddisfare i propri bisogni, soprattutto nel momento in cui avranno più bisogno di farlo. Come nel caso della malattia, delle ferie, della maternità, della disoccupazione, della pensione.
E allora, il Jobs Act, insieme a tutte le altre leggi che hanno flessibilizzato il mercato del lavoro, è tassello ultimo e fondamentale della svalutazione del lavoro come strumento cardine sui cui la politica italiana intende stimolare la competitività.
Ma, continuerà Renzi, il dramma non sono i giovani voucherizzati, bensì le tasse sulle imprese, a causa delle quali- si leggerà tra le righe- i salari e gli stipendi dei lavoratori sono troppo bassi. Ecco cosa dice Renzi:
Il vero dramma italiano è che in questi anni il differenziale tra ciò che paga un imprenditore e ciò che mette in tasca un lavoratore è troppo alto e troppo basso ciò che prende in tasca un lavoratore.
Altre affermazioni che bisogna smentire con forza: abbassare le tasse alle imprese non fa aumentare le retribuzioni. Se così non fosse le retribuzioni di collaboratori, di finte partite Iva, non sarebbero state alla base del tasso di lavoratori poveri tra i più alti di Europa. Perché per i contratti parasubordinati, le imprese non pagano quasi nessun contributo. Questi sono i fatti: l’indebolimento dei lavoratori dovuto alla liberalizzazione di forme di lavoro atipico ha svalutato ulteriormente il lavoro, sbilanciando ulteriormente i rapporti di forza nella contrattazione a favore delle imprese. Ma il punto chiave è che con quei risparmi gli imprenditori hanno fatto profitti che sono stati sempre meno tassati. È così che in Italia la distribuzione tra salari e profitti sul reddito nazionale ha visto la quota che va ai profitti rafforzarsi e in modo complementare quella relativa ai salari ridursi, sempre di più. Il meccanismo della precarizzazione del lavoro, ma in fin dei conti della vita nel suo complesso insieme alla riduzione delle imposte alle imprese, in particolar modo sui profitti, sono i fattori che hanno storicamente determinato l’aumento esplosivo delle diseguaglianze. A dirlo sono le istituzioni internazionali, come il Fondo Monetario e L’Ocse.
Quando il Presidente del Consiglio termina la sua relazione dicendo che:
“ la differenza tra chi urla e chi fa è che noi abbiamo fatto l'operazione degli 80 euro, la riduzione dell'IRAP sul costo del lavoro e l'abbassamento del cuneo fiscale” .
Bisogna rispondere che a quanto dice si aggiungono anche i quasi 20 miliardi spesi per la decontribuzione sul costo del lavoro, soldi che sono andati alle imprese e nello specifico ad ingrossare i loro profitti. La riduzione del cuneo fiscale (compresi gli sgravi sul costo del lavoro) per le imprese, dell’Irap e dell’Ires (a partire da gennaio 2017) è un modo per spostare reddito dai salari ai profitti. Nulla di più. Purtroppo questo non crea più competitività a meno di pensare che l’Italia voglia competere con i resort Egiziani- come vorrebbe Briatore- o con le magliette di simil cotone cinesi.
Questo processo di pauperizzazione delle classi lavoratrici e di conseguenza della maggioranza della popolazione null’altro è che una scelta di posizione all’interno dello storico e sempiterno conflitto tra capitale e lavoro. Il governo Renzi rivendica la propria scelta: sta dalla parte del capitale e contro i lavoratori, contro i disoccupati, contro i voucherizzati, contro i fattorini di Foodora.
Vale la pena ribadire che l’effetto più profondo è l’ampliamento delle diseguaglianze, nelle possibilità e negli esiti, non soltanto per i lavoratori ma per tutti i disoccupati per tutti quelli che non possono neppure lavorare. Spostare quote di reddito verso i profitti e contestualmente ridurre su questi le tasse significa avere meno risorse pubbliche per il welfare strumento che permette di tutelare diritti di cittadinanza, cioè soddisfare quei bisogni universali. Significa tornare indietro a periodi che nulla hanno a che fare con la civiltà e la democrazia, in cui i diritti sono garantiti solo a coloro che possono permetterseli.
*Leggi l'originale sul blog disordinedeisogni.tumblr.com