Le regole del carcere e il carcere delle regole

di Domenico Massano, pedagogista.

Nei diversi contesti istituzionali, come il carcere, la definizione e la gestione delle regole sono aspetti particolarmente delicati, da cui hanno origine molte criticità e, a volte, si attivano delle escalation e nascono incidenti. Spesso, purtroppo, uno stato di cronica emergenza e l’essere sopraffatti dal contingente portano a smarrire il senso profondo ed il quadro generale in cui si inseriscono le regole, cosicché nella pratica, paradossalmente, rischiano di diventare “muri” per il raggiungimento delle stesse finalità che dovrebbero garantire...

Un recente episodio di cronaca relativo ad un istituto penitenziario, pur con tutte le lacune ed i limiti legati al rifarsi ad un racconto giornalistico dei fatti e ad un’incompleta conoscenza della quotidianità in cui si è verificato, può, però, essere un’occasione per sviluppare riflessioni e ragionamenti sulla gestione delle regole in relazione alle finalità della pena nelle carceri e su alcune contraddizioni che sembrano attraversarle (ovviamente tenendo nel dovuto conto non solo le differenze territoriali, di dimensioni e di circuito dei diversi contesti carcerari, ma anche gli altri elementi che incidono sia sulle condizioni di vita dei ristretti, sia sul delicato lavoro del personale penitenziario, tra cui: il cronico sovraffollamento, le carenze di organico, l’inadeguatezza delle strutture, l’insufficienza degli spazi per le attività e la mancanza di lavoro, le difficoltà nel curare i rapporti affettivi, …).

Detto ciò, si può provare ad analizzare la vicenda, cui per alcune settimane i giornali locali hanno dato voce, a partire da un comunicato delle sigle sindacali delle forze di polizia penitenziaria sulla situazione della Casa di Reclusione A. S. di Quarto d’Asti (in cui sono ristrette circa 260 persone a fronte di una capienza di 205 posti) e sulle proteste, in particolare, di un detenuto al suo interno. Nel comunicato si dichiarava: “Da molto tempo, alcuni detenuti sottoposti a regime di “Alta Sicurezza” ristretti presso la casa reclusione di Asti “spadroneggiano” e “vogliono autogestirsi” […] uno in particolare, si rifiuta di rientrare (nella propria cella nel reparto isolamento, N.d.R.) da tempo immemore, con azioni di protesta e pretese, sbatte con una bomboletta contro i cancelli 24 ore su 24, tenendo sotto “scacco” tutto il personale del carcere astigiano e mettendo a rischio l’ordine e la sicurezza interna dell’istituto, suscitando anche lamentele di altri reclusi per gli schiamazzi reiterati”. Successivamente alcune dichiarazioni ampliavano la denuncia della situazione: “All’interno delle carceri lo Stato ha abdicato al suo ruolo. Non esistono più regole, né sicurezza”, “Abbiamo le mani legate, non possiamo fare nulla per far rispettare le regole”, “Se, come prevede il regolamento carcerario, ricorriamo all’uso legittimo della forza per riportare l’ordine scatta subito l’accusa di tortura”. Vi è stata anche un’apertura giornalistica sulle ragioni di questa personale rivolta della persona detenuta: “Forse per una chitarra. Pare che abbia chiesto di poter avere una chitarra. Del resto, da tempo, trascorre la sua vita carceraria immerso nell’arte”. La situazione non si è risolta e c’è stato un peggioramento del clima complessivo, sfociato in un’aggressione ad un agente, cui è seguito il trasferimento della persona detenuta (e della sua chitarra?) [1].

A partire da questa vicenda si può provare a sviluppare una riflessione di carattere generale su regole e norme nelle carceri, iniziando dal significato che regola e norma hanno nel linguaggio comune. Un significato che è, per molti aspetti, sovrapponibile. Le definizioni che ne dà il vocabolario Treccani online sono in tal senso indicative, quasi rimandandosi una all’altra:

  • Regola: norma suggerita dall’esperienza o stabilita per convenzione.
  • Norma: regola di condotta, stabilita d’autorità o convenuta di comune accordo o di origine consuetudinaria, che ha per fine di guidare il comportamento dei singoli o della collettività, di regolare un’attività pratica, o di indicare i procedimenti da seguire in casi determinati.

È, inoltre, utile rimarcare che negli istituti penitenziari la norma (e la regola), potrebbe essere un’importante portale attraverso cui il diritto entra nella coscienza delle persone, a patto che risulti “chiara, conoscibile, comprensibile, assimilabile, almeno giustificabile se non condivisa” e che si possa ritenere “che abbia un suo proprio senso e sia coerente con il sistema”[2]. Una sorta di necessaria coerenza che, tra l’altro, probabilmente permetterebbe una migliore gestione delle diverse criticità ed eviterebbe di alimentarne altre prevenibili, perché più la regola si allontana dalle sue finalità, più è opaco il suo fine, più ne sarà difficile l’applicazione e in molti casi l’uso della forza apparirà come principale, se non unica, risposta per la sua gestione. L’apparente chiara semplicità delle definizioni di regole e norme, però, spesso si scontra con la loro declinazione pratica, soprattutto quando questa avviene in ambienti già di per sé complessi come quello carcerario, ed è inevitabilmente determinata non solo dalla dimensione organizzativa e gestionale, ma anche da quella umana, culturale e sociale. 

Vale la pena sottolineare alcuni aspetti della vicenda presentata in precedenza che paiono essere significativi. Innanzitutto interroga lo stretto legame che pare emergere tra rispetto delle regole ed uso legittimo della forza (si ha addirittura l’impressione che lo stesso reato di tortura sia richiamato come ostacolo piuttosto che come conquista di civiltà). Preoccupa, poi, il senso di abbandono dallo Stato, dall’Amministrazione e dal resto della società che sembra trasparire. In ultimo colpisce il fatto che l’elemento scatenante della situazione di ingestibilità delle regole che ha paralizzato il carcere sembri essere stato la mancanza della possibilità di suonare la propria chitarra per un detenuto condannato alla pena dell’ergastolo e per il quale poter suonare era di particolare importanza.

Soffermandosi su quest’ultimo aspetto è opportuno domandarsi quale sia la cornice normativa e regolamentare in cui si può collocare tale richiesta e quali siano le principali norme e regole cui il trattamento penitenziario dovrebbe conformarsi rispetto ad essa. Insieme alla Costituzione, il riferimento principale dovrebbe essere la legge sull’Ordinamento penitenziario (L. 354/75), che nel declinare il dettato costituzionale, in particolare l’articolo 27 che afferma la finalità rieducativa e risocializzante della pena, specifica che il trattamento penitenziario deve conformarsi “a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione” e deve essere attuato secondo “un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni degli interessati” (art. 1), rispondendo ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto, “incoraggiando le attitudini e valorizzando le competenze che possono essere di sostegno per il reinserimento sociale” (art. 13). Inoltre afferma che “negli istituti devono essere favorite e organizzate attività culturali, sportive e ricreative e ogni altra attività volta alla realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati, …” (art. 27). Concetti e diritti riportati anche nel Regolamento carcerario (DPR 230/2000) oltre che in diverse Risoluzioni e Raccomandazioni internazionali[3] e che attestano la centralità della garanzia del libero sviluppo della personalità che, secondo il costituzionalista Marco Ruotolo, costituisce l’indicazione costituzionale più forte in materia di tutela della dignità personale[4].

Pietro Buffa, che è stato Direttore degli istituti penitenziari di Asti, Saluzzo, Torino e Direttore generale presso il DAP di Roma, ribadisce che “ciò significa porre attenzione e sostegno alla volitività e agli interessi delle persone e all’aiuto che deve essere dato affinché possano essere adeguatamente sviluppati […] L’Amministrazione, in tal senso, è obbligata ad organizzare quanto necessario affinché tale previsione si trasformi in realtà […] In quest’ottica anche il mantenimento dell’ordine e della disciplina, elemento certamente non secondario in ambito carcerario, non può giustificare restrizioni esorbitanti da queste esigenze”. Tuttavia è lo stesso Buffa a porre una questione centrale: “Questa prospettiva implica un’istituzione che sia più che una amministrazione di cose, che senta, cioè, il dovere di rimuovere gli ostacoli che si manifestano nell’ambito delle sue funzioni rispetto ai diritti dei loro affidati”[5].

Considerazioni che nascono dall’esperienza e dall’attenzione rivolta all’attività quotidiana, a come le persone e le istituzioni si muovono ed agiscono, perché “la verità sta nella pratica”, come diceva Basaglia, rilevando che come per l’internamento manicomiale, così anche per la pena carceraria la presunzione formale espressamente programmata dalla Costituzione, ossia la rieducazione e la riabilitazione, rimane sul piano formale, astratta, teorica ed è ben diversa dalla sua pratica reale, tanto che anche “agli occhi di un profano la pena carceraria resta afflittiva e la riabilitazione una parola vuota di significato …”[6].

Questioni che paiono essere ancora aperte ed attuali, soprattutto se si guarda a molte delle situazioni che si creano in ambito penitenziario e devono essere gestite dal personale che vi opera, in particolare dalla Polizia penitenziaria, il cui ruolo, come ha ribadito, incontrandone una rappresentanza, il Presidente della Repubblica Mattarella, è “caratterizzato da aspetti di grande delicatezza: da quello della indispensabile sicurezza a quello finalizzato alla rieducazione per il possibile reinserimento nella vita sociale dei detenuti”[7]. Aspetti, peraltro, sottolineati chiaramente nelle Regole penitenziarie europee: “I doveri del personale vanno oltre quelli di semplice sorveglianza e devono tener conto della necessità di facilitare il reinserimento sociale dei detenuti dopo la loro scarcerazione, attraverso un programma positivo di presa in carico e di assistenza” (art. 72).

Purtroppo, però, ancora troppo spesso, come ricorda Buffa, il progetto penitenziario pare non essere altro “che quello di ottenere un soggetto disciplinato, strumentalmente obbediente alle regole e all’autorità carceraria. In questo si rileva la sfasatura netta tra la visione trattamentale – riabilitativa finalizzata all’inserimento sociale e quella (di controllo, N.d.R.) funzionale all’ordine interno che, viceversa, ricerca l’obbedienza e l’adattamento e che sarebbe la funzione prevalente”. Organizzazione del controllo che, come emerge anche nelle riflessioni di Basaglia e di Foucault[8], è mascherata e insieme legittimata da un’ideologia della punizione articolata in quella che si può definire una microfisica del potere che si esercita attraverso disposizioni, scelte e funzionamenti utili ed adeguati ad un certo tipo di idea e progetto di carcere (e di società).

Il tema delle regole e della loro gestione è strettamente legato a questa sfasatura e se non si cambia l’ideologia della punizione che ne condiziona l’applicazione, se non si guarda alle persone, alle criticità ed agli incidenti che si verificano da una diversa prospettiva, svincolandosi dalla dipendenza da un discorso pubblico sbilanciato sul versante populista in ambito penale e partendo dalla finalità rieducativa e risocializzante della pena costituzionalmente prevista, difficilmente si riuscirà a migliorare la situazione complessiva nelle carceri (sia per chi vi lavora, sia per chi vi è ristretto), rendendole contesti realmente capaci di tradurre in “pratiche” il dettato normativo. Diversamente anche solo la richiesta di poter suonare una chitarra, o di frequentare un corso scolastico, o di laurearsi, o di cercare di dare un senso ad un tempo diversamente vuoto, potrebbero diventare problemi insormontabili e sfociare in incidenti[9].

Bisogna, in ultimo, ricordare che “Le pratiche, le abitudini e le diverse procedure che compongono la sfera penale sono sempre iscritte in un campo di significati che potremmo denominare cultura penale”, e che, purtroppo, “l’assunto dominante della nostra epoca è che il carcere funziona, non in quanto strumento di rieducazione, ma come mezzo di neutralizzazione e punizione che soddisfa le istanze politiche popolari di sicurezza pubblica e di severità della condanna”[10]. Sembra continuare ad essere assente, negli istituti penitenziari e nella società, una cultura diffusa della pena orientata dalla sua finalità rieducativa (art. 27 Cost.), che dovrebbe essere sostenuta da un impegno politico e da una pratica amministrativa e professionale capaci di valorizzarla e darvi concreta attuazione, se non per avviare una riforma del mondo carcerario, quantomeno per appianare le diverse problematiche che lo attraversano (secondo alcuni studi si ridurrebbero in tal modo criticità e recidiva, aumentando la sicurezza per tutti e contenendo i costi economici e sociali)[11], per garantire una maggiore dignità sia del lavoro del personale all’interno delle carceri, sia della pena per i detenuti, e per far sì che la reclusione non si traduca in un tempo svuotato, di privazione di diritti e speranza, ma perché il tempo “sottratto” abbia sempre un significato[12] e la pena conservi la sua tensione rieducativa costituzionalmente prevista. 

Domenico Massano, pedagogista


[1] La Stampa-Asti, Detenuti ammutinati (04/07/2024), La rivolta di Tituccio (08/07/2024), Polveriera carceri (16/07/2024); ATNews, Carceri ad Asti (03/07/2024).

[2] Finocchiaro A., Le parole delle norme, in Relazione al Parlamento 2021, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.

[3] Si veda in particolare Le regole penitenziarie europee, Allegato alla Raccomandazione R(2006)2, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’11 gennaio 2006.

[4] Ruotolo M., La persona nella sua libertà, in Relazione al Parlamento 2022, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.

[5] Buffa P., Umanizzare il carcere, ed. Laurus Robuffo, 2015

[6] Basaglia F., La giustizia che non riesce a difendere sé stessa, La giustizia che punisce, Il problema dell’incidente, in Scritti 1953-1980, ed. Il saggiatore, 2017

[7] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con una rappresentanza del Corpo di Polizia Penitenziaria, 18/03/2024, Quirinale.it

[8] Foucault M., Sorvegliare e punire, ed. Einaudi, 2014; Alternative alla prigione, ed. Neri Pozza, 2022.

[9] Si veda ad es.: Si è laureato in cella: «Quindi ora è più pericoloso». E il giudice gli nega i domiciliari, maggio 2022, garantenazionaleprivatidellaliberta.it

[10] Garland D., Pena e società moderna, ed. Il saggiatore, 1999.

[11] Mastrobuoni G., Terlizzese D., Leave the Door Open? Prison Conditions and Recidivism, EIEF Working Paper 21/11, July 2021; Rehabilitation and Recidivism: Evidence from an Open Prison, EIEF, September 2014.

[12] Palma M., in Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Relazione al Parlamento 2022.

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