di Marco Bersani, Attac Italia.
La narrazione leghista, penetrata trasversalmente nelle culture politiche istituzionali -basti pensare alle tre regioni che hanno sinora spinto per l’Autonomia Differenziata, due delle quali sono a trazione leghista (Veneto e Lombardia) e una è a trazione Pd (Emilia Romagna)- ha trasformato l’immaginario delle persone, facendole percepire non più come appartenenti a una comunità solidale che attraversa l’intero territorio del nostro Paese, bensì fornendo loro una nuova ipotesi identitaria basata sull’appartenenza regionale...
Il trucco è abbastanza semplice: nella frammentazione sociale prodotta dalle politiche liberiste, le persone vivono la dimensione della solitudine competitiva, e sperimentano come non vi siano più diritti garantiti e servizi pubblici finalizzati a renderli tali, ma che tutto avvenga attraverso transazioni economiche, per le quali l’unica certezza di essere curati, istruiti, formati etc. dipende esclusivamente dalla disponibilità individuale di soldi.
Poiché tutto questo genera grande frustrazione, per evitare che questa si incanali dentro un conflitto fra poveri e ricchi che minerebbe le basi del sistema, l’invenzione dell’identità regionale consente indubitabili vantaggi:
* fa pensare che l’appartenenza regionale definisca una comunità compatta rimuovendo le profonde differenze di condizione sociale al proprio interno;
* la rinsalda con la costruzione di un doppio nemico esterno: da una parte lo Stato, colpevole di burocrazia, accentramento e autoritarismo fiscale; dall’altra le altre Regioni, in particolare quelle più povere, considerate zavorra che impedisce il pieno sviluppo di quelle ricche;
* permette infine di illudersi che se i pochi soldi disponibili sul campo -sporchi, maledetti e subito!- sono di appannaggio regionale, è possibile che dalla tavola dei ricchi qualche briciola cada e tutti se ne possano in qualche modo giovare.
Ciò che di questa narrazione sfugge è un dato primario: nessun veneto, nessun lombardo, nessun emiliano-romagnolo paga le tasse in quanto definito dalla propria appartenenza regionale, bensì come individuo dotato di reddito e soggetto a tassazione progressiva.
Un veneto, un lombardo, un emiliano-romagnolo ricco paga le tasse (si spera) in quanto ricco e non perché residente a Verona, Bergamo o Modena. E lo stesso vale per i ricchi delle regioni povere.
Se letta così, l’idea dell’Autonomia Differenziata appare in tutta la sua chiarezza: le élites economico-finanziarie delle regioni agitano la bandiera identitaria e cercano di costruire consenso intorno a questa rappresentazione unicamente per poter aumentare i propri profitti, sottraendo risorse collettive dietro il paravento dell’indirizzo di residenza di chi le ha generate.
Che tutto questo sia stato partorito dalla Lega non stupisce: è l’atto di nascita della stessa, prima che l’improvvido Salvini tentasse di farla diventare un movimento fascista nazionale.
Che tutto questo continui a trovare sponda nel Pd, il quale continua a giocare su più tavoli -da una parte con l’adesione alla campagna referendaria, dall’altra attraverso il pronunciamento delle regioni per un quesito di abrogazione solo parziale della legge Calderoli- la dice lunga sulla crisi di visione che agita quel campo, stretto, largo o larghissimo che sia.
Ma ai banchetti nelle piazze e sulla piattaforma digitale le firme per l’abrogazione di OGNI autonomia differenziata volano: c’è vita nel Paese.