di Marco Bersani, Attac Italia.
Il governo Draghi, all’interno dell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per l’accesso ai fondi europei del Next Generation Eu, sta lavorando ad una riforma fiscale complessiva.
Che ve ne sia la necessità, lo dimostrano i dati sulla ricchezza presente del Paese e soprattutto sulla sua attuale redistribuzione. Vediamoli in estrema sintesi...
In termini assoluti la ricchezza in Italia è stimata in circa otto volte il valore del reddito nazionale. Inoltre, il patrimonio è una importante fonte di reddito, nelle forme dei redditi da capitale e d’impresa e delle rendite finanziarie e immobiliari.
Quasi 1,4 milioni di italiani (2,5%) hanno un patrimonio (immobiliare e finanziario) tra 1 e 5 milioni di dollari.
Per quanto riguarda i redditi, sono oltre 40.560 gli italiani che guadagnano più di 300 mila euro l’anno e sono 416.760 mila quelli che guadagnano tra 100 mila euro e 300 mila euro l’anno.
Come si distribuisce la ricchezza tra gli italiani?
Pur nella frammentarietà delle fonti disponibili, la distribuzione della ricchezza in Italia risulta estremamente disuguale. L’1% più ricco della popolazione detiene tra il 22 e il 24% della ricchezza totale. Il 10% più ricco arriva al 53,6%, mentre il 10% più povero ha lo 0,4%.
Questa situazione non è ovviamente un dato neutro, bensì la conseguenza di tre decenni di politiche liberiste, nonché di un sistema fiscale che, in ossequio alle stesse, ha perso ogni caratteristica costituzionale di progressività, ed è diventato penalizzante per le fasce deboli ed estremamente favorevole per i ceti abbienti della società.
Se prendiamo i dati sull’Irpef (imposta sui redditi delle persone fisiche), che costituisce la gran parte (65%) del gettito nelle imposte dirette, vediamo come il nostro sistema fiscale sia passato da 32 scaglioni di tassazione previsti nel 1974 (anno della sua istituzione) ai 9 scaglioni del 1983, e ai 5 scaglioni dal 2007 ad oggi.
Per rendersi conto dell’iniquità di questo processo, basti pensare che, se nel 1974 la forbice fra le aliquote andava fra il 10% (la più bassa) e il 72% (la più alta), oggi la forbice viaggia fra il 23% e il 43% (con quest’ultima applicata a redditi superiori ai 75.000 euro).
Queste trasformazioni hanno seguito tre direttrici: innalzare le imposte sui redditi più bassi; ridurre la progressività tramite la riduzione degli scaglioni; ridurre le imposte sui redditi più alti.
Con l’aggravante che, mentre nel 1974 l’Irpef prevedeva il cumulo dei redditi, le successive deroghe l’hanno trasformata in un’imposta il cui gettito è a carico del lavoro (58%) e delle pensioni (30,5%).
Non è secondario ricordare come l’insieme di questi processi ha portato, dal 1974 ad oggi, a una riduzione complessiva del gettito fiscale di 146 miliardi, per ovviare alla quale lo Stato è ricorso ai mercati finanziari, accollandosi, in virtù degli interessi composti, oltre 300 miliardi di debito pubblico, pari al 13% di tutto il debito accumulato.
Se questi sono i dati e se una riforma del fisco ha finalmente avviato i cantieri, ci si aspetterebbe che le linee guida della stessa si ponessero l’obiettivo di aumentare la redistribuzione sociale della ricchezza e di eliminare le profonde iniquità del sistema fiscale vigente, ritornando ai principi di progressività definiti dalla Costituzione.
Non è così. Il documento “Indagine conoscitiva sulla riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e altri aspetti del sistema tributario”, approvato il 30 giugno scorso dalla Commissione Finanze del Parlamento come indirizzo politico per la riforma fiscale, viaggia in tutt’altra direzione.
A partire dagli obiettivi indicati nella prima parte che così vengono declinati: “stimolare l’incremento del tasso di crescita potenziale dell’economia italiana e rendere il sistema fiscale più semplice e certo”. Nessun cenno all’iniquità e alla diseguaglianza, rispetto ai quali, al contrario “si sottolinea che il conseguimento dell’obiettivo redistributivo (..) può avvenire non solo tramite l’operare dei tributi ma anche sul lato delle uscite pubbliche”. La redistribuzione non è dunque il compito prioritario del sistema fiscale, che può continuare ad alimentare le diseguaglianza, ma delle politiche assistenziali che dovranno intervenire sulle fasce più disagiate. Se dalle enunciazioni passiamo ai fatti, ne abbiamo la conferma.
La proposta indicata rispetto all’Irpef è la riduzione delle tasse pagate dal ceto medio, identificato come quello a cui corrisponde il terzo scaglione delle aliquote (redditi da 28 a 55mila euro). Identificazione peraltro discutibile, visto che 32 milioni di contribuenti sui 41 complessivi appartengono ai primi due scaglioni. Il dato più grave è tuttavia che, non essendo la riduzione per il terzo scaglione compensata da un aumento delle aliquote di quelli del quarto e quinto, finirà per essere un nuovo regalo ai ricchi perché tutti gli scaglioni ora indicati ne usufruiranno.
Serve al contrario un’inversione di rotta, che porti finalmente i ricchi a pagare per redistribuire la ricchezza sociale prodotta e detenuta. Questo può essere fatto con provvedimenti immediati e urgenti per intervenire qui ed ora sulla condizione sociale di un paese che vede in costante rialzo gli indicatori della povertà assoluta e relativa; ma dev’essere soprattutto fatto con una riforma fiscale radicale che riconnetta le politiche reali al dettato costituzionale.
Tassare subito i ricchi può essere fatto in quattro mosse.
a) Paperoniale: un’imposta straordinaria sulla rendita finanziaria, oggi ridicolmente tassata al 26% (meno di un reddito da lavoro di 16.000 euro/anno);
b) Patrimoniale: un’imposta straordinaria progressiva sui patrimoni delle persone che possiedono oltre 500.000 euro;
c) Web Tax: un’imposta straordinaria sui colossi del web e software, i cui spropositati introiti, grazie alla fiscalità agevolata, risultano tassati all’irrisoria percentuale del 16,4%;
d) Tassa sulle transazioni finanziarie: oggi incredibilmente applicata senza interventi sulle transazioni speculative.
Ma ciò che va decisamente messa in cantiere è una riforma fiscale complessiva, che dovrebbe avere i seguenti punti qualificanti:
- reintrodurre il cumulo di tutti i redditi percepiti da ogni contribuente
- passare dall’imposta personale a quella famigliare
- rendere obbligatoria per tutti la dichiarazione Isee, come determinazione della base imponibile
- ampliare la no tax area a tutti i redditi fino a 10.000 euro/anno
- eliminare gli scaglioni per arrivare ad una tassa progressiva individualizzata, adottando come metodo di calcolo una funzione matematica continua, come si fa in Germania
- ampliare il tetto massimo di aliquota fino al 65%
- ridurre l’aliquota ordinaria dell’IVA, aumentandola per i beni di lusso
- avviare una radicale campagna contro l’evasione e l’elusione fiscale, che oggi comporta perdite pari a 120 mld/anno.
Si tratta di decidere, in definitiva, se, dopo decenni di deregolamentazione che ci hanno precipitato nella pandemia e di fronte alle sfide del riscaldamento climatico, vogliamo essere un conglomerato di individui che compete o finalmente una comunità sociale che condivide.
Articolo pubblicato su Left del 24 settembre 2021.