di Salvatore Lo Balbo, Segretario Nazionale Responsabile del Dipartimento Mezzogiorno, Infrastrutture, Territorio, Aree Urbane e Legalità della FILLEA CGIL.
Secondo uno studio dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni d’Italia) il patrimonio abitativo italiano è passato, dal 1961 al 2005, da 14.214.000 unità a 28.328.000, mentre la popolazione residente è passata nello stesso periodo da circa 50.624.000 a circa 58.462.000. Il raddoppio delle case, pertanto, non è legato al raddoppio della popolazione e nemmeno alla scelta di avere più di un alloggio ...
Pertanto, il patrimonio abitativo nazionale è notevolmente superiore al fabbisogno quantitativo che, spesso, non corrisponde a una qualità dei manufatti e delle loro prestazioni. Aggiungendo a esso il patrimonio edile industriale, commerciale ed agricolo, in Italia il consumo di suolo non impermeabilizzato ha toccato punte di circa 100 ettari al giorno.
Su questo patrimonio abitativo grava un enorme problema di riqualificazione energetica: gli edifici, in generale, contribuiscono al 40% del consumo di energia (quasi al 50% delle emissioni di CO2 globali) e la dispersione energetica ha conseguenze su consumi e costi.
Esiste infine un problema, oggi drammaticamente attuale, di messa in sicurezza degli edifici: in Italia il 70% degli edifici sono a rischio crolli in caso di terremoti di una certa rilevanza. Inoltre sono tanti gli edifici che si trovano in aree a rischio inondazioni e frane.
Quest’abbondanza di costruzioni ubicate spesso in luoghi veramente periferici e abbandonati, è una delle maggiori cause del deprezzamento che il patrimonio abitativo ormai subisce da anni.
Più delle bolle speculative, è quest’eccesso di offerta che ha impoverito – oltre al crollo delle retribuzioni e delle pensioni - non qualche centinaio di migliaia d’italiani che hanno grandi patrimoni immobiliari, ma milioni e milioni d’italiani che possiedono una sola casa di proprietà e un po’ di essi anche la seconda casa.
Al rilevante patrimonio privato si deve aggiungere un patrimonio pubblico che, pur essendosi assottigliato negli anni, si attesta intorno alle 800 mila unità abitative.
Nonostante questo, e a dispetto di questo immenso patrimonio abitativo pubblico e privato, come mai si continuano a dare autorizzazioni a costruire? Come mai non vi sono abitazioni in affitto con canoni proporzionati ai redditi dei normali lavoratori dipendenti o di cittadini che non hanno un lavoro dipendente a tempo indeterminato? Come mai le abitazioni costruite negli ultimi 20/30 anni si trovano in luoghi mal serviti sia dai sistemi pubblici di mobilità (metrò, treni locali, bus, etc.) sia da quelli privati (auto, piste ciclabili, taxi, etc.)? Come mai sono in tanti a sostenere che ci troviamo alla riproposizione delle periferie di pasoliniana memoria?
In confronto con gli altri paesi europei, l’Italia registra una percentuale molto bassa di edilizia popolare: con una percentuale pari al 4% è, infatti, quello con la minore quota di alloggi di edilizia sociale pubblica, a fronte del 36% dell’Olanda, del 22% dell’UK e del 20% della media comunitaria.
Dalla fine degli anni ’90 i governi e le maggioranze parlamentari che si sono succeduti hanno ridotto notevolmente i finanziamenti determinando il dissesto economico della maggioranza delle Aziende Casa territoriali, aggravando inoltre i processi di malgoverno già spesso esistenti.
Nell’ultimo quindicennio, invece di procedere con piani di edilizia residenziale pubblica, o per i palati meno fini “CASE POPOLARI”, per quanti possono pagare affitti non superiori al 25/30% del loro reddito mensile, si è imboccata una strada che partendo da esperienze europee positive, ha imposto in Italia il “social housing”, spacciandolo come la risposta a una domanda di case pubbliche che oggi si assesta almeno a tre milioni di alloggi (sono circa 700.000 le domande inevase).
Da stime effettuate da Federcasa, risulta che il costo medio degli affitti per gli alloggi realizzati o recuperati attraverso questi programmi si aggirerebbe intorno agli 800,00 euro mensili, il che equivale ad un reddito mensile complessivo di almeno 2.600,00 euro, palesemente non accessibile ai lavoratori dipendenti, agli studenti, ai disoccupati, ai pensionati o alle false partite IVA.
I risultati prodotti dalla legislazione sul “social housing” sono inversamente proporzionali ai fiumi d’inchiostro o di parole versati in riviste patinate e nei dibattiti svolti da persone che masticano le modernità come neve al sole.
Oggi abbiamo un settore che può benissimo prevedere “zero nuove abitazioni” almeno per i prossimi dieci anni. Non ci sono comuni piccoli, medi, grandi o aree metropolitane che non si trovino nella condizione di prevedere quest’obiettivo.
Queste sono scelte che oggi le amministrazioni pubbliche possono già assumere senza che necessiti una nuova legislazione.
La Fillea ritiene che il Pubblico (Stato, Regioni, Provincie e Comuni) debba, senza tentennamenti e ambiguità, ricominciare ad alimentare “il patrimonio pubblico abitativo” producendo atti concreti verso:
a) La ristrutturazione/ricostruzione dell’attuale patrimonio;
b) L’acquisto, e non la costruzione ex novo, di nuovi appartamenti già presenti sul mercato e allocati in zone urbane non periferiche da scegliere secondo piani di inclusione che soddisfano specifiche domande di bisogni abitativi legati al lavoro, allo studio, alla presenza di servizi pubblici;
c) L’utilizzo commerciale, in affiancamento all’Amministrazione Giudiziaria nominata o dall’Ufficio Misure di Prevenzione dei Tribunali o dall’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati, degli immobili sequestrati o confiscati alla criminalità e alle mafie. Al marzo 2013 sono 51.660 gli immobili sequestrati e 4.880 quelli confiscati, e Federcasa assieme alle Aziende territoriali sane ed efficienti possono contribuire alla loro valorizzazione;
d) La realizzazione di eventuali nuovi alloggi esclusivamente in aree già impermeabilizzate e possibilmente di proprietà pubblica.
Questi atti contemplano anche il definitivo abbandono dell’infruttuosa fase di vendita delle abitazioni pubbliche.
La nuova legislazione di cui abbisogna l’Italia, e di cui hanno necessità ordinariamente almeno due o tre milioni di famiglie italiane, deve rispondere all’esigenza culturale, economica e sociale di avere un patrimonio pubblico di abitazioni, rispettoso delle compatibilità ambientali ed energetiche, da utilizzare in affitti popolari solo momentanei e per periodi di vita legati a condizioni precise, come lo studio, il lavoro, la riduzione o l’aumento del nucleo familiare.
Per la Fillea è decisivo contribuire a far uscire il Paese e la filiera da questa lunga crisi strutturale con una proposta, che ha già visto momenti di mobilitazione della categoria, che metta al centro la fase di ristrutturazione ordinaria e straordinaria dell’attuale patrimonio pubblico e privato.
Ciò, a nostro avviso, si realizza anche attraverso una nuova stagione di Edilizia Residenziale Pubblica, ma forse è meglio dire – senza giri di parole – una nuova stagione di CASE POPOLARI moderne ed energeticamente ecocompatibili, per gli italiani che hanno redditi da lavoratori dipendenti, pensionati, precari o partite IVA.
Va rilanciata un’offerta virtuosa e popolare, contrastando in tutto il paese l’offensiva degli interessi speculativi, cementificatori e criminali.
Il rilancio delle CASE POPOLARI parte dall’utilizzo immediato delle risorse già stanziate dal “Piano di edilizia abitativa” (circa 850 milioni di euro), quelle del “Fondo Investimenti per l’abitare” (circa due miliardi di Euro) fermi presso la Cassa Depositi e Prestiti, quelle della ex-Gescal (circa 1 miliardo) e i fondi europei presenti nelle varie programmazioni.
La Fillea ritiene che ancora qualche milione d’italiani possa e debba continuare a vedere la filiera delle costruzioni come uno dei settori primari dell’economia italiana. Muratori, carpentieri, piastrellisti, installatori, lavoratori del cemento, lapidei, cavatori, geometri, ingegneri, architetti, restauratori hanno ancora un futuro nelle costruzioni.