Lo spazio costruito


di Maria Cristina Mortara, Architetto. Intervento all'incontro di Asti dello scorso 3 Aprile "Terra e Territorio, una questione di vita. Piani Regolatori, suoli fertili e paesaggi al centro del nuovo benessere delle nostre comunità".


Sino all’ottocento la città era il cuore di un territorio aperto anche se si circonda di barriere costruite per motivi militari, fiscali, politici. Queste sono mura, bastioni che non definiscono un  contrasto tra ciò che è o non è urbe,  l’integrazione  con il paesaggio e la realtà circostante è reale e totale. Il circostante è costituito da due componenti quella morfologica e quella insediativa frutto dell’organizzazione della valorizzazione della superficie terrestre ad opera di chi coltiva la terra ...

La vita all’interno delle mura era strettamente integrata con la vita sociale ed economica oltre le mura.
La  nascita, poi, dell’anello urbanizzato attorno alla città, cuore di un territorio aperto, raccoglie le strutture industriali e gli insediamenti dei ceti che diventano forza lavoro delle fabbriche. Certo è che le prime fabbriche funzionavano ad energia  idraulica, quindi avevano bisogno di fiumi e cascate, legna e carbone avevano la necessità di trovarsi su snodi viari.  

Durante i miei  studi universitari ho compreso che dire che le periferie sono frutto della rivoluzione industriale è ovvio, ma  non del tutto rispondente alla verità storica. Se osserviamo lo sviluppo delle città e le conseguenze dell’urbanizzazione possiamo dire che nelle città dell’Europa Occidentale le prime periferie nascono proprio all’interno delle città, è nel centro urbano che si creano zone di degrado ed emarginazione.  
E’ stata l’accentuata richiesta di manodopera legata all’accelerazione dell’industrializzazione e la crisi del mondo agricolo a  far nascere le periferie come malattia dello sviluppo.

Non possiamo stupirci se osservando, dal satellite, il nord dell'Italia, vediamo una  grande città diffusa frutto  dell’urbanizzazione dispersa e a bassa densità che ha modificato la bellezza dei paesaggi talvolta annullandone l’identità.
Quello che è conosciuto è che il formarsi della città diffusa, quasi una megalopoli, è frutto di migliaia di decisioni locali, direi di un’attenzione al proprio orticello senza curarsi di cosa succedeva al di là della recinzione posta ai confini.

I risultati che tutti abbiamo sotto gli occhi sono frutto di Piani Regolatori come quello di Asti dove la capacità insediativa  residenziale (abitanti teorici) su cui si è calcolato l’incremento di volumetria residenziale possibile è pari a 127.503  abitanti a fronte di 73.176  abitanti reali.  
Non è raro quindi, che il consumo di suolo diventi addirittura spreco: sono tanti i capannoni vuoti,  le  case  sfitte  o  invendute, edifici che hanno perso i requisiti funzionali, igienico sanitari, strategici per cui erano stati edificati e per ciò  abbandonati. Questi sprechi non hanno nessun beneficio, né sull’occupazione né sulla qualità della vita dei cittadini.

Manca ormai una programmazione “strategica” forte del territorio.  
Non possiamo più permetterci di considerare l’orticello chiuso dai confini geografici del Comune singolo; dobbiamo, come si diceva nel confronto che ho avuto con alcuni colleghi in preparazione a questo mio intervento, ampliare la  visione su un territorio molto più ampio e mettere quelle innate capacità innovative al servizio di una crescita economica comunitaria che non passa necessariamente per la cementificazione ma attraverso scelte condivise perseguite nel tempo, aperte alla costruzione del benessere collettivo nostro e di quelli che da noi erediteranno le conseguenze delle nostre scelte.
Sappiamo tutti che la terra ci serve e che dovremmo tenercela stretta, preservarla e aumentare, laddove possibile, la sua capacità di dare vita.

L'agricoltura  scivola  costantemente  verso  l'impoverimento,  sia economico che culturale, con  grandi  e  fertili  territori che sono passati (consapevolmente o meno) da una sana vocazione agricola, che però  comporta  pazienza  e  fatica, ad una ammaliante vocazione edilizia, che rende ricchi subito e senza sudore.
I contadini, potenziali protagonisti di una rinascita produttiva per il paese, sempre più difficilmente riescono a resistere di fronte alle innumerevoli difficoltà e la terra diviene solo una  preda, da  divorare, senza alcun riguardo nei confronti  della sua rigenerazione ecologica.
Il  compito di tutti è preservare l’identità e le peculiarità dell’intero territorio fatto anche di paesi e città.
Calvino, nella Città della Memoria, da’ ad ogni dettaglio uno specifico valore storico, proprio perché testimonianza del saper fare umano. Dobbiamo recuperare la “cultura del materiale” che si è formata attraverso colture, mestieri, modelli insediativi, tipi edilizi, tecniche e materiali ponendo al centro il territorio.  
Credo sia indispensabile ora diventare profondi conoscitori del territorio in cui viviamo, delle vocazioni intrinseche, delle  stratificazioni storiche di cui siamo il risultato, del patrimonio edilizio costruito, delle tecniche costruttive, delle tecnologie  che ampliano la possibilità di riconvertire, curare e salvaguardare il paesaggio.  

Dobbiamo avere il coraggio di invertire la rotta, dobbiamo immaginare e praticare una politica diversa, forse seguendo l’esempio del Comune di Cassinetta di Lugagnano che nel 2002 ha puntato sull’adozione di un Piano Regolatore Generale volto all'azzeramento del consumo di  suolo, che non prevedesse nuove aree di espansione urbanistica  e  che investisse  tutto sul recupero del patrimonio esistente, sulla promozione dell'agricoltura e sulla valorizzazione del paesaggio ambientale e architettonico.

Questo non vuol dire fermare il mercato immobiliare, non vuol dire stoppare la progettazione urbanistica, non vuol dire bloccare lo sviluppo.
Se si ipotizzassero tante piccole opere pubbliche e private diffuse tendenti a riqualificare tutto il patrimonio immobiliare  esistente  sul  territorio, opere volte ad abbattere i consumi energetici e riconvertendoli alle energie pulite e rinnovabili, se si ipotizzassero opere volte a recuperare la bellezza molti angoli del “bel paese” deturpati da scempi di varia natura, ci sarebbe probabilmente da lavorare, e per parecchi decenni, per tutte le imprese legate all’edilizia.

Se si ipotizzassero nuove attività legate alla realtà esistente recuperando volumi in disuso, dandone una nuova funzione per creare  nuovi volani di sviluppo e crescita economica, se si ipotizzasse la conversione di aree dismesse o  degradate,  se si ipotizzasse insomma di … “fare di necessità virtù” …..
Come? non ho una risposta pronta, ma credo fortemente nella comunione di intenti, capacità e saperi supportata dalla  volontà di cambiare per il meglio.

Sono  consapevole  dei  dubbi, perplessità sollevate con la campagna lanciata da  “Stop  al Consumo del territorio”.
La situazione economica attuale certo non aiuta. Chi vuole in qualche modo recuperare, trasformare, sopraelevare,  anziché dismettere e costruire ex novo, si trova a confrontarsi con la nuova normativa antisismica, con la  normativa  relativa al risparmio energetico e spesso ogni velleità si frantuma di fronte alle innumerevoli indicazioni normative che presuppongono costi.  
Ma la pratica ci insegna che oggi recuperare fabbricati di vecchia formazione a grande scala può costare, se fatta con oculatezza, intorno ai 1000,00 €/mq che è la stessa cifra che occorre per costruire il nuovo.  

Quindi perché non recuperare i volumi  esistenti anche procedendo, se necessario con la demolizione e successiva ricostruzione (sto pensando ad edifici realizzati negli anni 60 e 70 privi di identità e che presentano diverse difficoltà di recupero strutturale ed energetico).  
Guardandomi attorno, osservando la cementificazione, lo stravolgimento del paesaggio mi è venuta in mente una suggestione colta nel leggere Gianni Rodari che afferma: “ Scrivere una poesia è come costruire una casa …. devo scegliere le parole, devo dare ad ognuna di esse un compito preciso. Questa la possiamo usare come pilastro: è forte ed è capace di reggere tutto il resto. Quest’altra è più leggera e può andare bene da tetto … Sta venendo fuori una bella villa …. Ma no! Non è la villa che volevo. Era sufficiente una piccola casetta in legno. Sì di legno. E’ più calda e accogliente e adatta ad ospitare le mie piccole cose … Posso usare anche quell’albero là: è un sommesso richiamo al cielo”.

Questo scritto può essere messo in relazione col metodo di lavoro di tutti i progettisti che hanno un  bagaglio di  conoscenze che contiene informazioni, punti e stimoli per lavorare.
Compito di ciascuno è quello di approfondire la conoscenza, interpretare e reinterpretare le informazioni e interagire con esse. Si pensa, si prova a costruire sulla carta e si verifica e occorre avere la capacità di ricominciare perché il risultato non era quello che si voleva. E’ l’andare avanti e tornare indietro attraverso continui passaggi di scala che si arriva al risultato finale, risultato che non è mai chiuso e definitivo, ma rimane aperto a nuove proposte, a nuove evoluzioni.

Il progetto attento alla lettura dei modi costruttivi presenti nel contesto si configura come elemento di dialogo con il luogo arricchendolo e diventandone parte integrante, capace di interagire con la qualità dell’abitare.   
Le tecnologie usate non sono vincolo per la libertà di linguaggio, ma elementi essenziali e costitutivi di un processo di sintesi progettuale tra l’esprimersi e il fare.  
Il continuo confronto e dialogo tra progetto, contesto e cantiere guida le scelte costruttive attraverso tutto l’iter  progettuale e fa si che il progetto di carta non sia un fine ma un mezzo un elemento mediatore tra teoria e pratica, tra ideazione e realizzazione.

Si sta riscoprendo che i materiali da costruzione non sono solo quelli forniti dalle tecniche più avanzate ma elementi come:  l’acqua, il sole, la luce, il colore, l’esposizione, l’orientamento, la terra, gli alberi ….
Ognuno di questi materiali, utilizzabili oggi anche grazie a tecniche innovative, fa parte della nostra cultura architettonica; pensiamo all’esperienza del Neoplasticismo per quanto riguarda l’uso del colore, alle architetture di Wright o di Le Corbusier per l’uso degli elementi naturali.  
Allora che il continuo confronto tra progetto, materiali, tecnologia e contesto diventa occasione per acquisire una  consapevolezza architettonica e la capacità di vivere lo spazio con disponibilità che giunge fino alla ricezione degli  elementi paesaggistici e naturali come elementi del costruire.

Possiamo creare nuove possibilità di interazione col contesto che vanno dalla verifica della qualità del luogo e delle esigenze degli utenti fino alla rimessa in discussione dell’ambiente dell’abitare che possiamo immaginare come un unico  grande cantiere di trasformazione globale del territorio.  
Concludo dicendo che l’ambiente naturale deve essere visto non tanto come un tema difficile e complesso, ma come una  fonte di impulsi per un continuo affinamento del processo progettuale volto alla salvaguardia del territorio. 

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