di Maurizio Bongioanni.
Terza (e ultima) puntata su Renzo e Patricia sullo sfondo dell'Acna. Per rileggere la prima parte clicca QUI, mentre la seconda si trova QUI.
Da L'Ancora, settimanale di informazione acquese. 22 settembre 2002.
Gorzegno. Renzo Fontana, 48 anni, direttore di "Valle Bormida Pulita", è morto. Il suo corpo è stato ritrovato venerdì 13 settembre, in un burrone profondo oltre 200 metri, nel vallone di Elva, in alta Valle Maira, è finito fuori strada a bordo della sua "Mercedes classe E 320". La vettura è stata individuata dall'elicottero del 118, la salma è stata recuperata dal Soccorso Alpino Fluviale dei Vigili del Fuoco. I familiari avevano segnalato la sua scomparsa nel pomeriggio di mercoledì 11 settembre, dopo che Renzo, inspiegabilmente non si era presentato ad un appuntamento ad Alba. Ad Elva si era recato per acquistare formaggi.
La fredda cronaca di quei giorni riassume perfettamente la doccia gelata sotto cui si sono trovati i conoscenti di Renzo. Il pezzo di cronaca non risponde alla domanda sulle cause della morte, così iniziano a circolare le voci che a causare quell'incidente non sia stata una casualità. A diverse persone ho chiesto che cosa ne pensassero di questo fatto, Patricia compresa. D'altronde era proprio da questa domanda che la mia ricerca era partita. Pura curiosità mista a morbosità, me ne rendo conto.
Al secondo appuntamento telefonico con Patricia, ancor prima che ci conoscessimo di persona, le chiesi cosa ne pensava lei, di questa morte e delle voci che circolavano in giro. Non so di cosa sia morto Renzo. Me lo sono chiesta. Ho sentito di tutto: si è suicidato, lo hanno buttato, è stato un incidente. Insomma, sono andata sul posto ma la semplice verità è che una risposta non ce l'ho. Ne ho parlato a lungo con il secondo figlio, Davide, nato nel '91. Ovviamente ne ho parlato anche con il mio primo figlio, Ettore. Benché non fosse suo figlio, Ettore è stato cresciuto da Renzo, lo chiamava papà anche se sapeva che aveva un altro papà. Ha avuto due papà, cose della vita.
Non lo so, non lo so come sia morto. Ma sai, alla fine non è poi così importante, come dice Davide “se è morto è morto”. Anche cercare di sapere, di scoprire cosa gli è successo, non lo farebbe tornare. È meglio che ci occupiamo di altro, del presente, invece di sapere com'è morto. Noi sicuramente siamo stati minacciati, questo è sicuro.
Le minacce facevano parte di un clima d'odio indirizzato contro Patricia e la sua famiglia, oltre ai pestaggi subiti durante le manifestazioni sotto l'occhio cinico del sindacato.
Ma è la mail che ho ricevuto da Patricia poco dopo aver chiuso la conversazione che mi ha stranamente emozionato.
La morte di una persona è un evento molto doloroso che prende uno spazio spaventoso nella vita mentre in realtà, se la vita è frutto del caso, degli incontri, degli astri, del dna, di una miriade di probabilità che fanno sì che la vita sia un vero miracolo, la morte è un fenomeno, come ha detto Borgès, inevitabilmente annunciato, assolutamente privo di sorpresa, qualsiasi siano state le cause della morte. La morte di una persona non porta in sé nessun mistero, e dunque, secondo me, non ha nessun interesse. Mentre la vita è un libro che anche aperto a caso, rivela universi fantastici.. à bientôt, patricia
Per poi correggersi poco più tardi...
Chronique d'une mort annoncée est de Marquez naturellement.
MINACCE, CLIMA D'ODIO, BOTTE
Dopo l'alluvione del 1994 ho deciso di tornare in Francia. Lei in Francia, ad Antibes, con i figli di 3 e 11 anni. Renzo è rimasto a Gorzegno. Non ho chiesto a Patricia di precisarmi la motivazione di questa scelta. Perché ci siamo soffermati su altro, in particolare sul clima di odio e razzismo che si è venuto a creare in valle da parte di un gruppo di persone.
I giornali di qui ci hanno trattato come dei pezzenti. Non capisco perché Alba ce l'abbia avuta così tanto con i valligiani, trattandoli come gente un po' scema, senza interessi, campagnoli, che andava giusto bene come manodopera per la Ferrero. Mi piacerebbe capire perché c'è questo complesso verso la Val Bormida. Anche le infrastrutture rispecchiano questa distanza: per anni si è parlato di migliorare il collegamento tra Alba e Cortemilia ma non è mai stato fatto. Quasi come ci si vergognasse.
A parte questi aspetti socio-antropologici, c'era parecchia aggressività nei nostri confronti, che io ho archiviato. Una violenza, che non si firmava.
Anche nel paese stesso ci avevano preso di mira. Tutto era partito quando un giorno, andando alla messa domenicale, notammo che l'amministrazione locale aveva iniziato i lavori di rifacimento del palazzo comunale e da questi ne erano venuti fuori due antichi pilastri. Ci è bastato poco per venire a sapere che il Comune aveva intenzione di ricoprirli di cemento. Noi ovviamente ci opponemmo, invocando l'intervento delle Belle Arti. Nei giorni successivi Renzo ebbe l'impressione che il Comune, conoscendoci, avesse accelerato la ristrutturazione prima che noi avessimo il tempo di informare i Beni Culturali. Infatti Renzo mi mandò a controllare che non stessero lavorando e così mi trovai di fronte a ciò che Renzo aveva già intuito. Tornai da lui nella sede del giornale a Cortemilia, lo avvertii e lui chiamò immediatamente gli uffici del ministero. Poi corse a Gorzegno, fermò tutto e scoppiò un casino. Credo che fu quello il momento in cui tutta Gorzegno prese ad odiarmi. Alcuni riuscirono persino a dirmi che io non avevo il diritto di dire niente perché non ero di lì. In quell'istante venne fuori tutto il razzismo di cui gli esseri umani possono essere capaci.
E poi venne il giorno in cui la frana cercò di inghiottire la loro casa. Era il 1994, erano i giorni dell'alluvione. Io ero su a casa, mio figlio più grande era a scuola in basso a Cortemilia, io dovevo scendere a casa di Laura, quella che si occupava della pubblicità del giornale. Pioveva da giorni, da settimane. Io avevo capito che sarebbe successo qualcosa di drammatico se avessimo continuato a rimanere lì. Ho cercato di avvisare dei nostri amici che stavano ancora più su rispetto alla nostra casa, dicendogli che dovevano scendere, che era pericoloso rimanere. Avevamo tutti un'alternativa, invece di rimanere. C'era la sorella di Renzo, mia suocera. Non aveva nessun senso continuare a stare a Gorzegno, alla Pagliuzza, la nostra frazione. Quegli amici mi risposero, avevo quasi convinto la moglie quando il marito le strappò la cornetta dalle mani e mi gridò “ci hai rotto l'anima, lasciaci stare, stai mettendo paura a tutti, basta”. Questo succedeva al mattino, al pomeriggio scappavano. Sì, se la sono vista brutta davvero.
Noi invece al pomeriggio eravamo ancora lì. Renzo non voleva scendere. Io ero terribilmente in ansia. A un certo punto - non dimenticherò mai quell'istante - alzo il telefono per fare altre chiamate e sento che la linea - spesso succedeva all'epoca in caso di temporali - la linea cominciava a ingarbugliarsi. Riconobbi la voce dall'altra parte. Eravamo nel pieno dell'alluvione, nei giorni successivi saremo rimasti senza acqua né luce. Quella voce, so chi è, diceva che loro avevano ricevuto delle segnalazioni dal comune, che la situazione stava degenerando. Dicevano che avrebbero dovuto avvertire quelli della Pagliuzza - che eravamo noi - perché c'era il bambino. Hanno detto proprio così. La masnà, perché parlavano piemontese. E io lo capivo. Se fosse stato solo per noi adulti non ci avrebbero mai chiamati. Ma questo non cambiò le cose: nessuno ci avvisò. Nessuno ci avrebbe informato del pericolo.
Riagganciai la cornetta del telefono. Dissi a Renzo che andavo da sua madre. Lui non era d'accordo. Gli chiesi “ma la collina tiene?” e lui mi gridò contro “smettila”. Litigammo furiosamente. Io però sentivo di dover andarmene prima della notte. I nostri cani erano spariti tutti dal cortile. Presi Davide, che aveva tre anni allora, e uscii. Anzi, prima chiusi irrazionalmente le persiane, poi uscii. Da sola, con un bimbo al collo, cominciai a scendere a piedi lungo la strada scivolosa, piena d'acqua. La strada non c'era già più: l'acqua scorreva come un torrente da tutte le parti, mi sembrava che la collina si stesse sciogliendo. Un inferno. Rischiai di cadere una dozzina di volte, sempre con Davide stretto intorno al collo e le scarpe che non aderivano più al terreno, fatto d'acqua e fango. Un quarto d'ora dopo essermene andata veniva giù la frana contro la nostra casa che per miracolo tenne, non so neanche io come. Quella casa, la nostra casa, era stata disastrata e non avevamo i soldi per rimetterla a posto.
Quel terrore, non lo scorderò mai.
Poi c'erano le chiamate in piena notte, ricevute sul telefono di casa. Sì, sapevamo più o meno chi era, personaggi loschi di Cengio. C'erano dei veri e propri delinquenti, magari anche pagati dall'Acna, anche se non siamo riusciti a scoprirlo. Però quando la faccenda è finita, queste persone si sono tutte aperte, chi più o meno, un'attività tipo bar o altro. Capito?
C'erano persone che fomentavano, che raccontavano il falso. Meno male che c'era il giornale. Ad esempio un operaio ci ha aiutato a individuare i rifiuti, dove erano sepolti. Anche lui è stato minacciato più volte. Anche dentro l'azienda si provava terrore.
Poi arrivavano telefonate squallide, mi dicevano che mi avrebbero violentato, mi minacciavano in quanto donna. A Renzo dicevano che lo avrebbero ammazzato. Arrivarono pure lettere anonime alla sede del giornale. No, non eravamo affatto tranquilli, pensavamo ai nostri figli piccoli. Potevano arrivare in cascina, noi d'altronde vivevamo isolati.
“Si è parlato molto della necessità di riportare l'ordine nella zona della Val Bormida, ma sempre facendo riferimento ad interventi di ordine pubblico; ben poco ci si preoccupa dell'ordine democratico.
Oltre a tutto ciò che è già avvenuto, negli ultimi giorni si sono verificati ancora fatti preoccupanti, che abbiamo denunciato in un'interrogazione presentata insieme ai colleghi di altri gruppi. Mi riferisco ad episodi di illegittime pressioni nei confronti di consigli comunali; in particolare voglio denunciare la vicenda dell'anziano sindaco di Saliceto, costretto, dietro intimidazione, a telefonare al ministero per richiedere la riapertura dell'ACNA. E voglio anche ricordare le manifestazioni degli ultimi giorni, delle quali è stata data notizia sui giornali con tanto di fotografie. Durante quelle manifestazioni sono stati portati in giro dei pupazzi che, con nome e cognome, raffiguravano alcuni personaggi della zona; quei pupazzi sono stati trasportati nelle piazze e successivamente sono stati simbolicamente impiccati”.
(On. Patrizia Arnaboldi durante una seduta della Camera dei Deputati del 2 novembre 1989)
Tra quei pupazzi ce n'era uno che raffigurava Renzo Fontana.
FINE DELLA LOTTA
Le lotte sono faticose. Quella di Patricia e Renzo è durata dal 1989 al 1999. Ma il giorno che l'Acna chiuse, la Valle non festeggiò. Perché non si trattava né di una vittoria, né di una sconfitta. Per me è stata una vittoria, ma Renzo non era d'accordo su questo. Perché la vittoria sarebbe arrivata solo con la rinascita della Val Bormida. Il progetto della lotta negli ultimi anni non era solo la chiusura dello stabilimento, infatti, ma la rinascita della valle. La chiusura dell'Acna era essenziale, d'accordo, ma il nostro era un progetto di territorio. Come tutti quelli che abbiamo raccontato nel giornale.
La rinascita di un territorio che è stato rovinato è un progetto territoriale valido. Ciò significa tornare a dei valori, con delle persone che lavorano davvero su queste cose lontano dagli intrallazzi politici.
Per noi era molto essenziale rispondere alla domanda: “Cosa lasciamo?” a tutti i livelli, anche in quanto giornalisti. Come diceva Camus nella sua esperienza di giornalismo: arriva un momento in cui il giornalista trova i suoi limiti, non solo suoi ma anche del giornalismo stesso.
La questione dell'Acna inizia con la rivoluzione industriale e finisce con la crisi della stessa. Una rivoluzione che è costata tantissimo, non solo in termini di costi di produzione ma anche di costi umani. Quest'ultimo non vale più niente, lo sappiamo, lo vediamo: quello che importa è il guadagno. E in pochi ci guadagnano e questi pochi hanno bisogno di persone che si sacrifichino. Che sacrifichino la propria vita per uno stipendio. Lo stipendio ha preso il sopravvento sui diritti del lavoratore. Lo stipendio a qualsiasi costo. La crisi ti dice: se non hai lo stipendio morirai di fame. Le spazzature sono piene, e fino a quando lo sono perché dovresti morire di fame? Siamo nell'era dello spreco ma siamo convinti di morire di fame. La perdita dello stipendio sembra la perdita di tutto: per non perderlo siamo disposti a fare di tutto. Anche a morire.
Perché l'Acna? L'anno prima che nacque l'esperienza giornalistica della Val Bormida l'ACNA aveva licenziato più di 1000 operai. Ne rimanevano 700 al lavoro. Guai a toccare questi 700, quasi come se fossero gli operai di tutti gli italiani. Un'azienda che aveva miliardi di lire di debito: invece di chiudere e ricominciare, l'hanno difesa tutti.
C'era persino chi era disposto a bere l'acqua del Bormida per dimostrare che quel che si raccontava non era vero. Lo racconta bene Giovanni Franchello, consigliere comunale di Cortemilia, trascritto da Ginetto Pellerino nel suo libro:
“Stavamo tornado alle nostre auto dopo aver fatto i prelievi dei campioni d'acqua quando incrociamo un signore che ferma la sua vettura e cu chiede spiegazioni sula nostra presenza nella zona. Il sindaco di Terzo Eliana Barabino lo informa sui motivi della nostra visita e lui, quasi sprezzante, ci dice che l'acqua dello scarico non è inquinata e per dimostrarlo è pronto a berla davanti a noi. Non abbiamo il tempo di ribattere che strappa la bottiglia dalle mani della Barabino e beve un sorso di quel liquido giallastro e puzzolente e poi sogghigna sfottendoci. Era un ex operaio ACNA che stava recandosi nel suo orto di Pian Rocchetta. Da questo episodio abbiamo tratto che il condizionamento della fabbrica sugli abitanti di Cengio e della zona circostante era pressoché totale e aveva assunto livelli preoccupanti anche dal punto di vista sociologico e psicologico”.
Dal punto di vista economico l'ACNA non era messa affatto bene, era in continua perdita. È in questo contesto che cominciammo a indagare. Così è venuto fuori di tutto: non solo del traffico di rifiuti, ma anche chi fosse davvero l'ACNA e perché nessuna voleva che chiudesse.
I lavori finirono per essere bloccati nel 1993 quando il Consiglio di Stato confermò che non era stata effettuata la Valutazione di Impatto Ambientale, obbligatoria per quel tipo di lavori. Nel 1994, l'allora ministro dell'ambiente Altero Matteoli diede l'autorizzazione a procedere. Cambia governo e nel 1996 il ministro Edo Ronchi riscontra la mancata disponibilità da parte dell'ACNA ad accettare le prescrizioni assunte in sede di parere della Commissione VIA e di conseguenza i lavori vengono bloccati. Dopo 117 anni di storia l'ACNA chiude e i 230 lavoratori restanti messi in cassa integrazione.
Oggi l'ACNA è di proprietà della Syndial, società detenuta al 100% dall'Eni e che si occupa di risanamento ambientale. Nel periodo 2002-2011 la società ha speso 1,3 miliardi di euro in interventi di bonifica ambientale nei 13 siti di interesse nazionale conferitigli. Molti di questi sono stati trasferiti da ENI a Syndial, tra gli anni '80 e '90 “per una precisa volontà politica”. Lo ha detto il suo presidente, Leonardo Bellodi, nel corso di una audizione presso la Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, il 20 ottobre 2011. Non solo, ma Bellodi dichiarò anche che in Syndial “abbiamo anche altri azionisti, che rappresentano un po' un retaggio del passato: alcuni, per esempio, vengono da Enimont, e partecipano molto attivamente”. Syndial è in sintesi “la società nella quale abbiamo concentrato tutte le attività che provengono da un passato poco glorioso. Si tratta, infatti, di attività attribuite a ENI per legge oppure, in epoche completamente differenti dall'attuale, per una moral suasion, essendo attività in perdita, dismesse e quant'altro. Syndial è, pertanto, la bad company di ENI”.
E che di bad company si tratti lo dimostrano anche le indagini aperte: Syndial gestisce il risanamento di alcuni dei siti più disastrati d'Italia: oltre a Cengio citiamo Pieve Vergonte (dove ha a carico un processo per avvelenamento da DDT del Lago Maggiore), Porto Marghera, Porto Torres (dove otto dirigenti sono indagati per disastro ambientale e gestione di discarica abusiva), Priolo.
Nell'autunno 2015 sedici comuni piemontesi hanno presentato richiesta di risarcimento per i danni provocati dell'ex Acna di Cengio: Bergolo, Camerana, Castelletto Uzzone, Castino, Cortemilia, Gorzegno, Gottasecca, Levice, Mombarcaro, Monesiglio, Niella Belbo, Perletto, Pezzolo Valle Uzzone, Prunetto, Saliceto, San Benedetto Belbo e Torre Bormida. Una richiesta danni che si va ad affiancare a quella fatta nel 2008 dal Ministero contro Syndial.
Noi abbiamo fatto solo gli ultimi dieci anni di questa lotta. Molti sono morti prima senza sapere. Anche a Saliceto è stata molto dura e infatti anche qui ci sono state persone condannate a pagare multe per aver manifestato contrarietà all'inquinamento dell'Acna. Molti ci lavoravano, come del resto da tutta la Valle. Un mio amico di Saliceto ha trovato una multa degli anni '20: una signora che si era rivolta al tribunale per condannare l'inquinamento del fiume. Ma benché non ci fosse più vita nel fiume, e quindi il reato di inquinamento fosse veritiero, perse la causa. Anche lei dovette pagare 8 mila lire di multa, che all'epoca erano tanti soldi.
Cengio non è Genova, Roma, Milano. All'epoca abbiamo avvisato Democrazia Proletaria e loro hanno fatto un'interrogazione parlamentare. C'è stato movimento politico su questa cosa, loro hanno indagato a loro volta, potevano avere accesso a documenti istituzionali a noi non accessibili. Così scoprimmo che una volta arrivati in Romania non venivano caricati su navi, come pensavamo. Inoltre l'Acna veniva presidiata durante lo scoppio della Guerra del Golfo. E lì ancora a chiederci: ma che cosa fa l'Acna? Cosa c'entra con l'Iraq? A noi venne il dubbio che facesse parte di un cartello industriale a livello europeo. Quindi abbiamo presupposto che in Romania non arrivavano “rifiuti” ma sostanze da assemblare.
Davanti all'Acna un monumento dedicato ai lavoratori morti per l'azienda. Sulla lotta nessun ricordo. Intanto il luogo non verrà mai ribonificato. Invece di diventare un luogo universitario e di memoria per la bonifica. Non è quello che sta succedendo. Tanti cengesi ancora piangono la perdita di questa fabbrica perché avevano costruito i campi da calcio, mandavano i bambini nelle colonie.. nonostante avesse fatto dei morti. L'Acna regnava sulla valle. Il sindacato diceva al padre di Renzo: “tu ce l'hai con l'Acna perché tuo padre non è riuscito ad entrarci”. È vero, tutti volevano andare a lavorare all'Acna. Anche il padre di Renzo ci aveva provato. Perché l'Acna era buona. Poi però in molti hanno capito il reale pericolo della fabbrica. Il contadino contro l'operaio: l'arrivo dei pesticidi, suo padre si chiedeva “perché dobbiamo usarli”. Se non lo facevi non eri moderno.
Quando cominciai a lottare per i diritti dell'ambiente in Valle Bormida incontravo spesso operai che raccoglievano l'acqua con un bicchiere e continuavano a sostenere che fosse pulita. Quelle scene fanno riflettere. In nome di che cosa si arriva a sostenere il contrario dell'evidenza? All'epoca non c'era la crisi di cui si parla oggi. Ma la crisi è solo una scusa per fare ciò che si vuole. L'importante alla fine del mese è avere uno stipendio. A qualunque prezzo. Arriveremo ad ammazzare per avere lo stipendio. Possiamo crepare in nome della crisi. Patricia sottolinea la parola 'crepare' con insistenza, facendo vibrare la 'r'.
Volgendo lo sguardo al passato e osservando ciò che è stata l'esperienza di Valle Bormida Pulita, mi chiedo: cosa significa oggi essere giornalista? Non fare, Patricia insiste su 'essere'. La grande differenza tra la vecchia storia della lotta all'Acna e gli ultimi dieci anni sta tutta in questo giornale. Non significa che il giornale ha fatto chiudere l'Acna, non voglio dire questo. Voglio dire che da quando c'è stato il giornale, la lotta è cambiata. L'Acna non era più la stessa cosa degli anni prima, dal momento che dei giornalisti hanno indagato. E l'Acna si è trasformata in qualcosa di più complesso, di più universale. Non era più solo lo stabilimento di Cengio che avvelenava un fiume. E questo cambio di direzione lo ha dato il giornalista. Solo un giornalista poteva allargare la prospettiva: non lo poteva fare il politico, l'operaio, il sindaco.
Io non sono d'accordo quando la gente dice che i giornalisti fanno schifo: ci sono giornalisti che si sono fatti ammazzare per le loro inchieste. Hanno pagato un prezzo altissimo diventando a tutti gli effetti dei martiri. Chi muore diventa un martire del Giornalismo, con G maiuscola, non di chi fa giornalismo del cazzo.
Io sono partita dal singolo per arrivare alla valle, una valle derisa da tutti. Ma come ha fatto una lotta del genere a diffondersi in quel modo, non me lo so ancora spiegare. Il mistero umano che ci sta dietro è favoloso. In questo caso l'ordine attraverso la cui lente si devono leggere i fatti è quella del mito. Se affini la vista, scoprirai che tale mito è composto da persone normali, banali come lo sono stata io. Allo stesso tempo però è stato un fatto straordinario, durato 117 anni. E noi siamo diventati un giornale “del mondo” senza internet. Anche io mi chiedo come sia stato possibile,ma non so rispondere.
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2020
Lavoro sette giorni su sette. Mi piace lavorare e non mi sono mai annoiata. Vedo la gente della mia età che non aspetta altro di andare in pensione, invece io non vedo l'ora di lavorare. Non mi è mai mancato, me li sono sempre inventati. Ho fatto tutti i lavori tranne la puttana, come mi dicevano i sindacalisti.
Questa frase è ultima cosa che mi ha detto Patricia, parlando del suo presente. Era il 2014. Quando è mancata, il 10 gennaio 2020, Patricia stava ancora lavorando a un suo caro progetto: avevamo scritto all'Unicef. Mi sono letta tutta la Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia e tra questi mancava il diritto del bambino a non essere inquinato.
Amici della Val Bormida e di Patricia mi hanno detto di voler portare a compimento questo suo progetto. Questa è l'eredità che abbiamo di lei e con questo obiettivo continuerà a essere tra noi. À bientôt, Patricia.