di Maurizio Pagliassotti*.
Saluzzo, secondo giardino ortofrutticolo d’Europa non è Rosarno: ci sono i neri che arrivano da tutto il mondo, i «moru» come vengono chiamati da queste parti, ma non ci sono i caporali. C’è il lavoro duro ma non ci sono le angurie o i pomodori, le coltivazioni che più necessitano di un’organizzazione del lavoro che deborda spesso nella schiavitù. Se mangiate una pesca, un kiwi, una mela, un’albicocca, e buon ultimo un mirtillo succoso, molto probabilmente tutto ciò è stato raccolto da una mano nera in questo vastissimo territorio del profondo cuneese ...
{jcomments on}Terra di cattolicesimo radicato, ricco, ma senza dar nell’occhio, da cui nei decenni sono passate legioni di raccoglitori di frutta: prima i contadini della val Varaita e Po, poi i meridionali pugliesi detti anche «mandarin», poi marocchini, rumeni, polacchi e infine, ultimissimi, gli africani. Quelli dei barconi arrivati qualche anno fa o qualche giorno fa.
LE NAZIONALITÀ più diffuse sono: Mali, Costa d’Avorio, Senegal e Burkina Faso. Una voce tra le poche che hanno voglia di parlare, è quella di Youssuf, ventisei anni, senegalese: «Vorrei lavorare tutti i giorni, fino a novembre. Restare fino ai kiwi, magari fare anche la pulizia degli attrezzi, poi tornare a casa. E poi venire di nuovo qui, il prossimo anno. Vivere in queste condizioni non è bello ma non me ne andrò». Gli altri, quasi tutti, non ne vogliono sapere di raccontare le loro peripezie, l’unica cosa che conta è il lavoro.
LA STORIA RICORDA i romanzi di Luca Rastello, lo scrittore torinese scomparso due anni fa, perché tenebre e barlumi di speranza – in questa vicenda di migranti, soldi, finti buoni e veri cattivi – si compenetrano, dando vita a un caleidoscopico contesto. Non ci sono gli schiavi, non ci sono i caporali, ma nel lungo viale che porta al Foro boario di Saluzzo da diversi anni c’è una indecorosa – nel tempo del dilagante mantra del «decoro urbano» – baraccopoli che condensa tutte le contraddizioni di questa terra.
Perché almeno, da queste parti, le contraddizioni ci sono. Le fece esplodere il Comitato Anti razzista nel 2010, un coraggioso gruppo di cittadini che denunciò per primo le condizioni di vita dei raccoglitori di frutta. Dopo qualche tempo giunse la Caritas che fornì tende e alloggiamenti di fortuna per le centinaia che vivevano in condizioni bestiali. Passano gli anni e il territorio inizia una faticosa collaborazione che porta alla creazione di tre diversi tipi di alloggiamento per i migranti, che da ora chiameremo «braccianti»: nelle cascine dei proprietari, diffusa sul territorio, e selvaggia. Il problema è semplice:circa duecento, ma il numero è assai variabile, di questi uomini non sanno dove vivere una volta terminato il loro turno di lavoro. Senza tener conto del meteo, che può interrompere anche per settimane la raccolta.
L’ORGANIZZAZIONE ruota intorno alla Coldiretti. Che nel tempo ha organizzato soluzioni abitative con i proprietari di aziende agricole che fanno soggiornare i braccianti dentro le loro cascine, oppure hanno organizzato sul territorio punti di raccolta dove dare ristoro. Chi è in possesso di un contratto ed è disposto a spendere due euro al giorno potrà vivere sotto un tetto, dormire su un materasso avere a disposizione bagno e cucina.
Così un gruppetto di uomini è finito di fianco al cimitero, nella ex casa del custode: un posto tranquillo. Altri sono alloggiati dentro i container recuperati da Coldiretti.
Alessandro Armando lavora per la Caritas e da diversi anni segue le vicende dei migranti braccianti: «Il problema sorge perché molti imprenditori agricoli rifiutano di alloggiare i lavoratori nelle loro cascine. Nel Foro boario di Saluzzo, ovvero nella baraccopoli, non è inusuale trovare molti ragazzi con un contratto in mano. Serve una normativa in tal senso, oggi assente, che metta in relazione il lavoro agricolo con il diritto all’alloggio». Effettivamente, girando attraverso gli sterminati filari di pesche, mele, pere, è difficile comprendere come non vi sia spazio per alloggiare pochi uomini.
Tino Arosio è il direttore provinciale della Coldiretti di Cuneo: «Questi giovani per noi sono un valore e dei compagni di viaggio. Siamo consapevoli delle difficoltà presenti, ma non si può negare che numerosi passi avanti sono stati fatti per dare una vita dignitosa a questi uomini. Si pensi al progetto dell’accoglienza diffusa che noi abbiamo concordato con imprenditori e comuni. La normativa attuale non prevede alcun obbligo per l’imprenditore agricolo per quanto concerne l’alloggiamento, ma noi stiamo operando per porre termine ad una situazione, quella del foro boario, che non accettiamo».
Luisella Lamberti, responsabile dell’ufficio migranti della Cgil, inquadra la situazione lavorativa dei raccoglitori di frutta: «Nonostante i passi avanti rimane una zona grigia. Molti vengono contrattualizzati per dieci giorni, ma alla fine lavorano molto di più, per poi essere pagati in nero. Noi tentiamo di fargli capire che potrebbero aprire un vertenza ma sono tutti terrorizzati dall’idea di perdere il posto e quindi il permesso di soggiorno. Chi protesta contro i migranti non ha idea di cosa stanno facendo per l’Italia. Paradossalmente per fare un balzo nella modernità si dovrebbero attivare liste di prenotazione di lavoratori come avveniva quando esistevano le chiamate attraverso gli uffici per l’impiego, anche in forma sperimentale. Non solo: sarebbe necessaria una certificazione di qualità proprio per quel prodotto che, come in molte aziende della zona, reca nel suo prezzo finale la dignità di questi uomini».
LORO, I BRACCIANTI, nella baraccopoli del Foro boario vivono dentro tende ricavate da gommoni e come giaciglio hanno spesso un cartone. C’è la lavanderia, il barbiere, un bagno comune e la sala tv: due lunghe file di baracche, invisibili agli occhi della cittadinanza. Che però mugugna – nel tempo delle barricate si può considerare uno straordinario risultato – anche se gli episodi di criminalità sono pari a zero.
LA CARITAS, che negli anni passati gestiva il campo, quest’anno ha deciso di far emergere il conflitto portando solo un paio di tendoni e offrendo un servizio d’assistenza meno strutturato. «Ci pensano quelli della Caritas: questo era diventato il principio», commenta sempre Alessandro Armando. «Come se fosse scontato che c’è chi può lavarsene le mani e chi deve provvedere. Abbiamo deciso che ci deve pensare l’intero sistema del territorio a gestire questa situazione, in primis gli imprenditori agricoli». Loro, i migranti, partono al mattino con le loro biciclette e la fotocopia del permesso di soggiorno: chi ha il lavoro va a colpo sicuro, gli altri vagano per campagne, sotto il sole, di filare in filare. A chiedere se c’è qualcosa da raccogliere. Da giugno, tempo di mirtilli, a novembre, tempo di kiwi. La frutta fresca, raccolta con delicatezza e comprata a prezzo stracciato, passa da queste mani.