di Maurizio Bongioanni.
“Come la mafia impone il pizzo così il caporalato oggi pretende un’usura nascosta. Solo che qui, tra la raccolta nei campi da nord a sud, l’usura è fisica: erode le mani, asciuga i polmoni, infeltrisce i muscoli e intanto si mangia i diritti” scrive Giulio Cavalli su Left. Anni fa ricordo che ero a Saluzzo e l’allora ministra all’integrazione Cecile Kyenge era venuta per una visita istituzionale. In quell’occasione un gruppo di braccianti africani le sporsero una lettera. In quella lettera invitavano le istituzioni a fare un giro nei campi per poter vedere con i propri occhi quali fossero le condizioni di lavoro dei braccianti africani nella filiera della frutta piemontese.
Inutile dire che quel giro la Kyenge non lo fece mai e nemmeno i rappresentanti delle istituzioni successivi. Forse la Kyenge aveva altri problemi a cui badare, come ad esempio difendersi dai colpi bassi del razzismo predicato nella provincia italiana. Infatti quel giorno la ministra era stata “accolta” dai neofascisti di Casa Pound (o Fiamma Tricolore? Che differenza fa) a suon di slogan inculcati dall’ignoranza.
Ebbene, lo sfruttamento e il lavoro nero nei campi non solo si sono ripetuti l’anno successivo (e quello dopo ancora) ma si è addirittura diffuso in altre zone ...
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I 90 braccianti stipati nelle cascine tra Neive, Mango e Barbaresco in condizioni igienico-sanitarie spaventose ne sono una triste conferma. I giornali parlano di questo fatto di cronaca come il primo caso di caporalato della Granda legato alla vendemmia.
Ancora una volta lo stato - intendendo quello dei ministeri - è complice di essersi voltato dall’altra parte. Si è limitato a registrare il caso come un caso isolato e ha continuato a predicare l’aumento dei posti di lavoro usando i soliti slogan poco concreti. Un fatto concreto da mettere subito in pratica sarebbe quello di punire esemplarmente i caporali e definire una legge ad hoc già troppe volte rimandata. Perché la schiavitù non è finita, tanto meno nella civilissima e rispettabile provincia di Cuneo.
“...forse il ministro sa che, come la mafia, se noi non ci occupiamo del caporalato il caporalato alla fine si occupa di noi, occupa i banconi del nostro supermercato, occupa le nostre tavole e gestisce i nostri gusti e sancisce le nostre opportunità; come la mafia, il caporalato investe sulla disperazione ma blandisce il potere, corrompe i controlli e, pervasivo e sistematico, sorregge intere economie; forse il ministro Martina sa che anche per il caporalato, come per la mafia, servono leggi speciali, professionisti preparati, testimoni da proteggere e intanto diffondere, controlli serrati e un serio lavoro culturale e sociale”.