di Gianfranco Miroglio.
Sono immagini, scorci, sono spunti e abbozzi. Sono macchie, sono righe, sono tracce. Suggestioni, emozioni e soprattutto sospiri, se e quando mi accingo a entrare in città, passando per i soliti posti. Sono specchi sul fiume. Poi macerie strappate da una cartolina di tempi lontani. In fondo è un peccato dice a tutti - a chi passa e rallenta, a chi invece si ferma per vedere il cantiere - Luciano ingrugnito da una panca del circolo. La congrega di amici del Tanaro fa sì, fa no con le teste. Le macerie erano memorie e piccioni e degrado. Ora sono polvere e nuvole...
Sul corso resta appena un’ombra di alberi, sette giganti ostinati in attesa del boia. Pennellate di platani, contro il cielo, dentro un sole che, un’estate e poi l’altra, da anni oramai, ci minaccia d’inferno. Facciamo pure finta di niente!
Luciano insiste, guardandosi intorno. A chi passa lui chiede e si chiede: Ma perché? Serve abbatterli? Lassù le fronde sono attonite e non ci suggeriscono risposte che abbiano un minimo senso. Men che meno se si chiede in Comune. Ineluttabilità del profitto, indifferenza, supponenza, l’ambiente è un fastidio, nonostante gli allarmi e i disastri. Il già dato. Così le piante aspettano il boia. Gli anziani, con Luciano, aspettano le ore, gli eventi.
Sono invece teneri, eroici, cocciuti o patetici gli ambientalisti che aspettano gli insulti. Poche ore e si cambiano i quadri e gli stimoli. Resta assurda, per me che sto provando a entrarle nel cuore, la città che non riconosco. Di barriere, di cancelli e di sbarre, di gimkane, di labirinti e di dedali. Dovrei raggiungere il centro per caricare mia suocera. Sta in piazza Alfieri, zona rossa, invalicabile ghetto per i cittadini normali. Temporaneo, sia chiaro. Temporaneo tutto: Astimusica prima, ora il Palio, poi can can di settembre inoltrato, infine, qualche giorno e a seguire, ad autunno appena iniziato, le baracche imbiancate per il Santo Natale.
Oggi è sabato. Mollo l’auto poco oltre la domanda nel nulla di Luciano e degli altri. Scarico la bici. La uso. Pedalo e mi perdo inseguendo una pista ciclabile, sperando che mi porti vicino a mia suocera, sperando che lei, con il caldo abbia perso qualche chilo. Contando poi che la canna la regga. Sulla piazza di sotto, quella grande, dove, contro voglia, si è cammellato il mercato ma non si è previsto nient’altro, il sole dardeggia implacabile. Diluisce i banchetti. Annulla i tendoni. Stordisce e fa scappare i clienti. Gli ambulanti sono invece mezzi nudi e tutti abbronzati. Forse neri. Ma di rabbia. Danno i numeri: nientemeno che la conta dei danni. Chi cristona di aver perso il cinquanta per cento, altri più, altri meno. Come loro, gli affittuari del mercato coperto e i gestori del bar affacciati alla statua del sommo. Sono un coro: meglio prima!
La domanda che circola è la stessa riguardante quei platani: ma perché questo assurdo? Bene o male, raggiungo mia suocera, per scoprire, ovviamente, che la canna non la riesce a sorreggere. Per tornare alla macchina, con le borse e il trolley, si va a piedi dove ci fanno passare. Storia lunga e lenta attraverso un centro come sempre impagabile ma struggente di sepolcri imbiancati. Di serrande abbassate, di vetrine spogliate contro cui sono rimaste, percepibili appena, le impronte azzurrine, gli ectoplasmi nerastri dei politici che hanno fatto carriera. Recentissima roba, pochi mesi, ma davvero altri tempi e altri fasti.
Ora, contro i vetri blindati, solo il vuoto e gli sguardi sospesi dei turisti. Nel silenzio dei portici la domanda non cambia, multilingue però: ma perché tutto questo? Ma comunque a qualcuno oltre al sindaco la città degli spiriti piace. Son turisti o che cosa? Son Cinesi?