Sono un giovane acero e vivo in un giardino pubblico di un quartiere astigiano. O meglio, vivevo, perché ora sto tristemente e inesorabilmente seccando.
Ho incontrato per due volte la parte più sconvolgente del “fattore umano” e questo è il risultato...
Sono stato piantato qualche anno fa dopo che uno dei primi violenti temporali, uno di quelli che ancora stupivano tutti, improvviso e sconvolgente, aveva abbattuto il pino cedro che stava qua accanto.
Ero un alberello e sono cresciuto dritto e sereno, con un bella chioma folta e allegra, fino al 2 giugno scorso.
E’ una festa importante vero, per voi? Per me non lo è stata. Quella sera un ragazzino colmo di rabbia, di insoddisfazione, di vuoto o di non so che altro, un ragazzo molto meno felice di me, è uscito di casa premeditando la mia fine e portando con sé una specie di piccola accetta, ben sapendo ciò che voleva fare.
Perché proprio su di me avesse deciso di sfogare il suo disagio, la sua ignorante sofferenza, non saprei: forse perché io non potevo rispondere, non potevo difendermi, prenderlo a pugni, a coltellate, ma nemmeno mordere, guaire, lamentarmi. Forse perché la mia serenità gli pareva assurda, così lontana dal suo stato interiore, o forse semplicemente perché crescevo lì, accanto alla panchina dove si ritrovava con i suoi coetanei. Coetanei, perché non me la sento di definirli amici.
Comunque, quella sera, nell’indifferenza del gruppo di ragazze e ragazzi che lo circondava e che parevano stare su di un altro pianeta, un pianeta lontano e anaffettivo dove non si soffre troppo di nulla e di nulla ci si prende responsabilità, si è avventato su di me con quell’aggeggio e ha cominciato, con furia, ma metodicamente, a scuoiarmi. Si, mi ha tolto la corteccia, a strisce, con rabbia e nessuno intorno diceva nulla: d’altronde, non è successo anche per strada quando invece di un alberello ad essere aggredito è uno dei vostri simili?
E siccome in quel ragazzo, un adolescente come me, la rabbia o l’abbandono si erano ormai trasformate in stupidità e avevano superato ogni minima forma di intelligenza, avrebbe voluto, dopo avermi così denudato, tentare di abbattermi.
Ridicolo, avrebbe potuto passarci la notte senza farcela. Intanto, quegli altri giovani virgulti umani che lo circondavano, continuavano a tacere, o meglio a parlare tra loro. Forse avevano paura di fare la mia fine, ma più probabilmente, da quel pianeta di cuori ibernati su cui si trovano, non provavano niente né nei miei confronti, né in quelli del mio carnefice.
Poi, qualche intervento dai balconi circostanti, una telefonata ai vigili urbani, hanno interrotto l’ennesima inutile serata di quei miseri alle cui derive nessuno ha intenzione di segnalare una rotta o un porto lontano.
Il giorno dopo, le persone mi sfilavano davanti, silenziose, esterrefatte, o commentando tra loro. Qualcuno è venuto a curarmi, mi hanno avvolto in una iuta, una fasciatura pietosa. Ma è durato poco: anche quella è stata tolta, perché l’ignoranza è ignoranza, la rabbia, rabbia, non danno tregua. Qualcun altro ha di nuovo rialzato la fasciatura, alla bell’e meglio, ma di fronte a me stava un nuovo grande guaio e, dicono, anche questo provocato da voi umani.
Magari in un anno diverso ce l’avrei fatta, invece avanzava un’estate feroce, ruggente di temperature infernali e di un secco privo di ogni conforto, di ogni goccia di pioggia, che ha finito di segnare il mio destino.
E così sto seccando, tristemente: da giovane e allegro che ero, sono diventato improvvisamente vecchio e raggrinzito, incapace di dare sollievo a me stesso e alle altre creature.
Potrei odiarvi per quello che avete fatto e state facendo, ma non voglio andarmene così: ovunque andrà il mio spirito, io voglio benedire questo mondo e ancora sperare che possiate rendervi consapevoli di quello che state facendo. E anche di quello che non fate.
Quanto a quel ragazzo, non so quale destino lo attende, ma se sarà solo con quel suo cuore malato, non lo sarà mai completamente. Perché io non desidero che soffra quanto me e anche se lui non lo sa, sarò lì accanto, a dargli riparo con una chioma che nessuno potrà abbattere.
Daniela Grassi