L’assedio

di Carlo Sottile.

La discussione sul ventennale del G8, promossa da alcuni protagonisti di quell’evento, proprio nel luogo fisico, il Diavolo Rosso, dove nel corso di quel lontano 2001 i “movimenti” astigiani posero i preliminari delle loro drammatiche giornate di Luglio, è stata molto più celebrativa di quanto gli stessi promotori avessero voluto.
Nella ricostruzione degli scenari di Genova e dintorni, che via via gli interventi componevano si è smarrita oppure è rimasta sullo sfondo senza particolare significato, la sfida radicale ai poteri della globalizzazione neoliberista condotta in quei giorni dal “movimento dei movimenti”; da quel soggetto collettivo che, dal Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, con straordinaria ricchezza di pratiche sociali e di conoscenze, andava tracciando il futuro di “un altro mondo possibile”...

Più precisamente sono rimaste sullo sfondo le azioni dei “gruppi tematici” che nella giornata del 20 luglio, la stessa dell’assassinio di Carlo Giuliani, muovendosi da punti diversi della città, si sono diretti all’assedio della linea rossa, violandone più o meno simbolicamente le barriere. Dagli eredi della Comune di Parigi, a quelli della Riforma, dai militanti di Casarini, alle suore digiunanti del Cristo “campesino”, ciascuno in relazione alla propria esperienza e cultura, tutti hanno sperimentato la relazione “violenta”, implicita nel proposito di porre l’assedio alla cittadella dei ricchi. Dalla parte dei manifestanti, non una passeggiata ma contrasti, superamento di confini, presidi, occupazioni, ripiegamenti, ostruzionismo, sabotaggio nonché la fuga. Tutte le forme della resistenza attiva, agita con i corpi e infine sopraffatta dall’attacco violento delle varie polizie.

Omettere o sottovalutare il proposito e le modalità dell’assedio è una delle scelte che caratterizzano le narrazioni orientate a rendere inoffensiva e priva di futuro, la sfida che il “movimento dei movimenti” ha lanciato nel 2001 contro i poteri della globalizzazione neoliberista.

I corollari di quella narrazione, che subito dopo Genova hanno contribuito ad estenuare le attività dei Social Forum, fino al loro scioglimento, sono tre: la riduzione a “vittime” dei protagonisti della sfida, la riduzione delle tute nere ad un alter ego della polizia, la produzione della ideologia della “non violenza”, vale a dire l’accettazione dello status quo, più o meno tormentata dai fantasmi del reale.

Nella discussione che è seguita, un solo intervento, non a caso di una persona che nel 2001 era troppo giovane per essere presente ai fatti, ha riproposto il tema dell’assedio e del suo “animato” svolgimento. Cogliendo il paradosso implicito nella vistosissima scritta rossa, EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale), sul nero della maglietta indossata di uno promotori della discussione, ha osservato che il sub-comandante Marcos “camminava domandando”, come il “movimento dei movimenti”, ma camminava con un esercito di contadini se/liberati dalla povertà e dal potere dei neoliberisti e narcomafie che di quella povertà avevano fatto tesoro.

Un appello alla insurrezione armata, lanciato in una calda e luminosa serata di luglio, nel corso di un amabile convivio ?
Assolutamente ridicolo, considerando che allo “altro mondo possibile”, invocato dai “movimenti” a Genova e dintorni nel 2001 è seguito un “altro mondo impossibile”, quello presente, in cui il potere del neoliberismo si è fatto ancora più inafferrabile di allora e si impone, secondo necessità di tempo storico e di luogo geografico, con la violenza, la sorveglianza e l’assoggettamento, demonizzando ovunque il conflitto sociale.

E allora cosa ?
Semplicemente non raccontiamo la favola di un potere che sarà smosso, senza conflitto sociale, da una richiesta di discussione e confronto, per quanto ostinata e ricca di passione intellettuale.
Una illusione da non coltivare neppure con una governance cittadina, felicemente e ferocemente adagiata sui flussi della economia neo-liberale; in poltrona con Arcanet, Lidl, Decathlon e simili venditori di brand e contemporaneamente in piazza con i piccoli commercianti annegati in quei flussi; a braccetto con qualunque volontario della filantropia pubblica e privata e a distanza di sicurezza dai volontari del bene comune e dei diritti costituzionali; protagonista di un agire pubblico che frequenta con difficoltà la democrazia liberale ed ha in ostilità quella diretta.

Sappiamo bene che il conflitto sociale non può essere semplicemente evocato. Intanto è necessario vederlo come costellazione nel cielo del pianeta, dove i picchetti agli hub della logistica e le #/insorgenze degli operai delle fabbriche chiuse con una email, hanno lo stesso valore della vigilanza armata dei nativi dell’Amazzonia, che difendono se stessi e il loro habitat naturale dall’assalto delle multinazionali del fossile e della carne. In secondo luogo è necessario vederne i prodromi, quando il conflitto sociale si affaccia dalle innumerevoli periferie delle nostre città, nella forma di un malessere rancoroso, prima disciplinato, assoggettato, sorvegliato e infine indirizzato verso plebisciti autoritari, dalla stessa governance con cui ci ostiniamo a voler dialogare.

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