di Carlo Sottile, per il Coordinamento Asti Est.
Lo sgombero delle tre famiglie dallo stabile occupato di Salita al Fortino è stato uno sgombero violento. L'apparato militare messo in campo avrebbe travolto qualsiasi resistenza. Se la resistenza non c'è stata il merito non va alle famiglie, di cui è stata ipocritamente lodata la mitezza, ma alla triade – proprietari, assessorato, questura – che ha fatto terra bruciata attorno al “soggetto sociale”
che dal 2010 e d'intorni ha tentato di ricondurre il bisogno abitativo all'esercizio di un diritto ...
Hanno avuto quel senso tutte le sue azioni pubbliche, contrasto degli sfratti, occupazioni (quattro in città), cortei e assemblee. Era composto da famiglie sfrattate, sotto sfratto e dai generosi militanti di una associazione.
Ora quel “soggetto sociale” appare esausto, quasi dissolto. Si era messo “in movimento” con altri omologhi su tutto il territorio nazionale, aprendosi un effimero spazio politico con la manifestazione di Roma dell'ottobre 2013.
Casa, reddito, dignità è stata la parola d'ordine di un corteo di decine di migliaia di persone e famiglie. La risposta del governo e delle amministrazioni pubbliche non si è fatta attendere. Militanti arrestati, militanti agli arresti domiciliari, centinaia di persone processate e le richieste “non conformi” alle leggi della possidenza – espropri, requisizioni, comodati d'uso di edifici vuoti o abbandonati – quasi ovunque respinte.
Ma al fine di mantenere il bisogno abitativo entro i limiti del mercato e le rivendicazioni degli inquilini entro i limiti di un conflitto a bassa intensità, è servito l'avvio di un dispositivo di controllo, composto prevalentemente di procedure e agito a livello di singola persona, di singola famiglia. Di particolare efficacia, per assoggettare le famiglie ed esorcizzarne un possibile “noi”, si sono rivelate le procedure di contrasto dell'emergenza: fondo morosità incolpevole, agenzia sociale per la locazione. Chi vi usciva senza aver mutato le proprie condizioni economiche, non poteva rientrarvi e andava ad ingrossare un più indefinibile e perciò meno pericoloso, malessere sociale. Il flusso nelle tasche della possidenza di una più che discreta somma di denaro pubblico, nonché la domiciliazione e la separazione delle famiglie, per tempi indefiniti, in una rete di dormitori e centri di accoglienza per donne e minori, sono state l'innaturale (nel senso di disumano) compendio di quelle procedure.
Da questo punto di vista, lo sgombero avvenuto in salita al Fortino e quelli annunciati sono la naturale conclusione di “un buon lavoro” fatto dell'ineffabile assessore dalla giunta appena dimessa dall'elettorato. Puntare il dito contro quella appena eletta, senza coglierne la continuità con la precedente, è fuorviante. L'attenzione va fissata sulla “questione abitativa”. Perché è una questione nazionale non risolta, che si è vieppiù aggravata e perché quel “soggetto sociale”, adesso estenuato, può imprevedibilmente risorgere.
I funzionari della triade di cui si è detto all'inizio, la raccontano come una “emergenza”, per nasconderne il carattere strutturale, cioè il fatto di essere determinata dalla politica e dalla cultura dominanti. Infatti quella “emergenza” raccontata, di cui nessuno sa prevedere la fine, si ripresenta ogni anno uguale a se stessa, dal 2006: stillicidio di sfratti per “morosità incolpevole”, graduatorie per la casa popolare affollate e inesauribili, mercato delle locazioni inaccessibile per famiglie con redditi precari.
Su tutto il territorio nazionale il bisogno abitativo di una fascia sempre più ampia di popolazione rimane più che mai consegnato agli spiriti animali del mercato. Le cartolarizzazioni, l'abolizione dell'equo canone e l'azzeramento della Gescal degli anni 90, hanno avviato l'iter legislativo di questo indirizzo, concluso nel 2014 con la legge 80, la cosiddetta Lupi/Renzi. Quella legge, che in città nessun assessore, politico, o funzionario pubblico ha criticato, residua l'edilizia residenziale pubblica (Edr) in manutenzioni e vendite del suo patrimonio, attribuisce al partito del mattone nuovi strumenti di gestione del territorio e “criminalizza la povertà (Paolo Berdini, urbanista, “Le città fallite”, Donzelli editore), negando la residenza e l'allacciamento delle utenze alle famiglie “occupanti”.
La casa non è solo le sue mura, è il luogo dell'accoglienza, del ritorno, della cura. Le occupazioni, per le famiglie “fuori mercato”, sono quel luogo. Come lo sono le case popolari per le famiglie che affollano inutilmente le graduatorie del bando Atc.
Cancellare quel luogo o renderlo una chimera non ha prezzo, è solo il segno di una società incivile. E lo è a maggior ragione quando le città, come la nostra, hanno un patrimonio edilizio inutilizzato, esclusivamente affidato alle sorti del mercato immobiliare.
Al momento non ci resta che contare sull'attivismo e la moralità dei cittadini fedeli alla Costituzione e considerare doverosa la resistenza a tutti quegli atti pubblici che sconfessano la promessa di uguaglianza dell'art.3 della Costituzione e negano la funzione sociale che gli art. 41 e 42 della stessa Costituzione impongono alla proprietà.