Un genocidio silenzioso. In Sudan...

di Matteo Minafra.

L’attenzione mediatica sui conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente distoglie la maggioranza dei Paesi da un altro tragico capitolo nella storia del continente africano: la guerra civile in Sudan, che nell’indifferenza generale ha già provocato migliaia di vittime e oltre 2 milioni di rifugiati...

La Repubblica del Sudan: una storia travagliata

Pochi lo sanno, ma non lontano dal caldissimo fronte mediorientale si sta consumando un’altra catastrofe. Una situazione in cui anni di governo insostenibile e istituzioni civili in rovina, combinati con l’interferenza di potenze straniere, hanno portato a quello che l’ex Segretario di Stato americano, Colin Powell, ha definito nel 2004 come il “primo genocidio del XXI secolo”.

La storia del Sudan indipendente è stata segnata da profonde divisioni interne e conflitti ricorrenti. Da quando ha ottenuto l’indipendenza nel 1956, il Paese ha faticato enormemente per formare un’identità nazionale stabile.

Le differenze etniche, religiose e regionali hanno fortemente contribuito ad alimentare le tensioni.

I governi successivi non sono riusciti a soddisfare le esigenze delle comunità, portando a prolungate guerre civili, soprattutto tra il Nord e il Sud. Quest’ultimo per molti decenni ha cercato di essere riconosciuto come indipendente, ottenendo infine il risultato nel 2011.

Questi conflitti sono stati aggravati da problemi quali governi autoritari, disparità economica e competizione per risorse preziose come il petrolio, che hanno attirato agenti stranieri. La secessione del Sudan del Sud ha evidenziato la complessità del frammentato panorama politico del Paese, che attraversa una condizione di instabilità permanente almeno dalla fine degli anni ’10 di questo secolo.

2019: la prima mossa dei militari

Dopo tre decenni di governo autoritario, nel 2019 il presidente Omar al-Bashir è stato deposto in seguito a mesi di proteste popolari, innescate dall’impennata dei prezzi di beni essenziali e dalla dilagante corruzione.

Il presidente è stato rimosso dall’esercito sudanese e dalla stessa forza che un tempo aveva sostenuto e fatto crescere: le Rapid Support Forces (RSF), una milizia islamista evolutasi dai Janjaweed.

Al-Bashir si era servito della milizia come sua “forza di contro insurrezione” durante la guerra del Darfur nei primi anni 2000. Durante il conflitto, la milizia si è resa responsabile di pulizia etnica e genocidio nei confronti delle comunità non arabe nella regione.

Questa guerra ha causato centinaia di migliaia di vittime civili e milioni di sfollati, feriti o sottoposti a orribili violenze. Nonostante le promesse di una giunta militare di far transitare il Paese alla democrazia entro due anni, è passato poco tempo prima che venisse a galla una nuova crisi.

I due generali della guerra civile in Sudan: ascesa e crisi

Il governo militare di transizione è infatti crollato nel 2021, portando alla ribalta due figure militari chiave: il generale Abdel Fattah al-Burhan, comandante delle forze armate sudanesi (SAF), e Mohamed Hamdan Dagalo, leader delle RSF.

L’ascesa al potere di Dagalo è stata sorprendente: partendo come capo di una sconosciuta tribù Janjaweed, ha trasformato la RSF nella milizia più potente del Sudan, instaurando relazioni con attori globali di grande importanza (su tutti gli Emirati Arabi Uniti e la Russia, quest’ultima attraverso connessioni con la milizia mercenaria Wagner). Nel 2021, Dagalo ha assunto il ruolo di vicepresidente de facto nel governo di al-Burhan.

Il precario equilibrio su cui si basava l’accordo tra i due leader militari si è però infranto nel febbraio 2023. Ad accendere le tensioni è stata la questione del passaggio ad un governo civile, e l’integrazione delle RSF nell’esercito nazionale.

Mentre una parte chiedeva una rapida integrazione nei ranghi ordinari, l’altra ha dato un periodo di almeno dieci anni per attuare questo radicale cambiamento ed ha espresso preoccupazione su chi sarebbe stato infine messo al comando della milizia, se il capo dell’esercito (Dagalo) o il capo dello Stato (al-Burhan).

Queste dispute, unite ad altri disaccordi sorti riguardo l’assegnazione delle miniere d’oro, una risorsa fondamentale per l’economia del Paese (e su cui Dagalo aveva grande influenza), sono degenerate nel giro di due mesi, quando unità RSF provenienti da tutto il Sudan hanno preso d’assalto la capitale Khartoum, prendendo il controllo di gran parte della città e riaccendendo il conflitto nel Darfur. Il Sudan è così sprofondato in una nuova, distruttiva guerra civile.

La situazione al fronte

Un anno dopo, le RSF esercitano un controllo quasi totale sul Darfur e mantengono aree chiave della capitale Khartoum. Tuttavia, le forze di Dagalo affrontano una pressione crescente: le SAF, beneficiando di un crescente sostegno internazionale, stanno recuperando porzioni considerevoli di terreno.

Dopo aver riorganizzato un governo temporaneo nella città costiera di Port Sudan, le forze di al-Burhan hanno scatenato l’offensiva nell’area di Khartoum, costringendo le RSF a ritirarsi dietro le linee dell’artiglieria e degli attacchi aerei.

L’esercito regolare, dall’inizio dell’operazione iniziata a settembre, afferma di aver ripreso il controllo di diversi siti strategici, tra cui la Banca centrale del Sudan. Un contesto completamente diverso emerge nel Darfur, dove le RSF stanno assediando la capitale regionale di El Fasher, l’ultima roccaforte delle forze governative, effettuando bombardamenti in aree densamente popolate e di conseguenza causando numerose vittime civili.

La crisi umanitaria

Per dare una concreta percezione dell’entità di quanto sta accadendo nel capoluogo del Darfur e non solo, basta concentrarsi su una delle aree di riparo edificate alle porte della città: il campo profughi di Zamzam, dove ad oggi sono dislocate circa 500mila persone, esposte al fuoco sia delle RSF che delle SAF, e contemporaneamente stremate dalla fame e dalle malattie.

Il logorante stato d’assedio in cui vive la città da mesi ha infatti favorito la proliferazione di malattie infettive come la malaria, il colera, il morbillo e la dengue, soprattutto nel Darfur e nell’area della capitale Khartoum, come già detto anch’essa soggetta a pesanti scontri.

In particolare, è stato stimato che nelle regioni in cui il conflitto si sta consumando con più violenza (Al Jazeera, Darfur e Khartoum), fino all’80% delle strutture sanitarie è andato distrutto.

Ancora una volta, sono i più deboli a pagare il prezzo più alto: secondo l’UNICEF, il rischio di contrarre malattie infettive riguarda circa 3,4 milioni di bambini sotto i cinque anni. Bambini che non hanno ovviamente avuto modo di completare una qualsiasi forma di ciclo vaccinale, e il cui sistema immunitario è già messo a durissima prova da una carestia feroce.

Anche in questo caso, i rilevamenti realizzati dalle Nazioni Unite restituiscono una situazione sconcertante: il Sudan si trova tra i quattro Paesi con i valori più alti di malnutrizione globale acuta (GAM), presentando un valore nazionale del 13,6% che raggiunge persino picchi del 30% nel Darfur settentrionale.

Non solo Sudan

A tutto ciò si aggiunga il dramma delle inondazioni che ha sconvolto il Paese negli ultimi mesi, quando piogge torrenziali e costanti hanno costretto più di 170.000 persone a lasciare le proprie case, incrementando il numero già enorme delle persone sfollate nelle diverse regioni e negli Stati limitrofi, che si ritrovano loro malgrado coinvolti nell’emergenza umanitaria.

Particolarmente difficile la situazione al confine con Libia e Chad, le due rotte più battute dai profughi, proprio perché interessa due Stati già alle prese con profonde crisi politiche e umanitarie interne.

Infatti, se da un lato la Libia è dilaniata da anni di guerra civile, dall’altro il Chad è alle prese con la carestia ancor più duratura di quella che ha colpito il Sudan.

Non è dunque una sorpresa il fatto che le agenzie ONU presenti sul campo abbiano previsto un ulteriore deterioramento delle condizioni alimentari e sanitarie, qualora il conflitto dovesse protrarsi, proprio come sembra destinato a fare. Sono infatti falliti anche gli ultimi tentativi di raggiungere una soluzione diplomatica promossi da nazioni terze.

Gli Stati Uniti, in particolar, si erano fatti promotori di una proposta di cessate il fuoco la scorsa estate, sponsorizzando un tavolo di trattative a Ginevra dove sarebbero stati presenti altri attori di rilievo come le Nazioni Unite, l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti in qualità di osservatori.

Nonostante sia stato garantito l’accesso di un numero limitato di aiuti umanitari, i due belligeranti hanno respinto ogni proposta di accordo diplomatico, sostenendo che l’unica cosa che avrebbe fatto cessare le ostilità sarebbe stata la vittoria militare.

In particolare, le SAF si sono rifiutate di inviare una delegazione a Ginevra criticando la presenza al tavolo delle trattative degli Emirati Arabi, che finanzierebbero gli interessi delle RSF nel conflitto. Al di là di queste frizioni si nasconde una trama ben più ampia, che vede il Sudan al centro degli interessi non solo degli Emirati, ma di numerosi altri attori globali.

Chi finanzia la guerra civile in Sudan?

Gli interessi internazionali incombono sul campo di battaglia. Gli attori stranieri considerano il Sudan un polo economico e strategico troppo attraente per lasciarlo andare e qualsiasi fazione stia prendendo il sopravvento nel conflitto viene inquadrata come un possibile partner da supportare con i mezzi più sofisticati di intelligence e tecnologia militare.

Così, come riportato dal Wall Street Journal, l’Iran ha intrapreso trattative con il governo di Port Sudan a marzo di quest’anno per la costruzione di una base strategica sul Mar Rosso, fornendo alle SAF droni e tecnologia avanzata.

Nel frattempo, le RSF godono del sostegno dei combattenti russi del gruppo Wagner, con l’influenza di Dagalo nell’industria mineraria che suggerisce i vantaggi che il Cremlino potrebbe cercare con una vittoria dei miliziani in questa guerra.

Ed è qui che è possibile osservare un fenomeno singolare: membri delle forze speciali ucraine sono infatti stati avvistati operare tra le file dell’esercito regolare sudanese. Sembra che il governo di Kiev, che tra l’altro equipaggerebbe le SAF con droni estremamente avanzati, abbia ingaggiato una sorta di ‘guerra delocalizzata’, parallela a quella che infuria ancora nel Donbass.

L’obiettivo è destabilizzare la forte presenza di miliziani wagneriani dislocati in Sudan, ma soprattutto nella vicina Repubblica Centrafricana, dove i mercenari del Cremlino svolgerebbero la maggior parte delle loro operazioni.

Cosa resta del Sudan?

In questo intreccio di lotte di potere tra generali, ingerenze straniere e guerre per procura, cosa resta oggi del Sudan? Un paese che già soffriva di una gravissima carestia, ma che oggi conta – secondo l’UNICEF750.000 persone che “sono soggette a livelli catastrofici di insicurezza alimentare”.

Nonostante gli sforzi di organizzazioni come il World Food Program, circa 10 milioni di persone sono state sfollate internamente o nei paesi limitrofi, sia per la guerra che per la carestia e i disastri naturali.

Ciò che rimane è un Paese sfruttato da potenze straniere, la cui gente è in balia di un gioco violento per il controllo di un hub vitale sul Mar Rosso. Inoltre, il rischio di nuovi episodi di pulizia etnica incombe, soprattutto nella regione del Darfur, qualora El Fasher dovesse cadere nelle mani della RSF.

Nei campi profughi situati intorno al capoluogo regionale ci sono centinaia di migliaia di persone, molte delle quali si sono stabilite lì per sfuggire ai massacri dei primi anni 2000. Vent’anni dopo, i sopravvissuti si ritrovano immersi nello stesso incubo, in condizioni sanitarie insostenibili, circondati da un nemico spietato e dal colpevole silenzio della comunità internazionale.

Matteo Minafra

Tratto da: https://www.giovanireporter.org/2024/10/18/guerra-civile-in-sudan-genocidio-silenzioso/

 

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