Per parecchi anni successivi al 1° gennaio 1948, data dell’entrata in vigore della nostra Costituzione, una parte (per fortuna soltanto una parte, ma tuttavia importante) della giurisprudenza, per suggestione di una teoria giuridica maturata nel clima politico di allora, aveva creduto di scoprire una distinzione fondamentale tra le previsioni della Carta, quella tra norme precettive (e cioè applicabili immediatamente) e norme programmatiche (necessitanti, in un futuro indeterminato e non vincolante, dell’intervento del legislatore ordinario - Camera e Senato - per divenire efficaci): dimenticando disinvoltamente che la Costituzione nel suo complesso è un programma precettivo, nel senso che essa “detta legge” al legislatore, il quale è obbligato a uniformarvisi ...
Anche sulla base di tale distinzione il Parlamento italiano, nel quale prevalevano ben note maggioranze, ritenne fino a circa la metà degli anni cinquanta di non procedere alla formazione della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura, organismi fondamentali di garanzia della legittimità delle leggi e degli atti aventi forza di leggi e dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario anche nei confronti degli altri poteri dello Stato: evidentemente perché così tornava comodo al potere dominante. La prima sentenza della Corte costituzionale nella composizione prevista dall’articolo 135 è del 14 giugno 1956 e la prima elezione del Consiglio Superiore è della stessa epoca.
La Corte Costituzionale stabilì subito che le norme della Carta, se regolavano principalmente l’attività del legislatore ordinario, dovevano essere tuttavia applicate immediatamente, non solo nel senso che le leggi già esistenti ma con esse contrastanti dovevano essere considerate abrogate e che il Parlamento doveva provvedere, senza dilazioni pretestuose, a sostituirle con altre leggi aderenti ai precetti costituzionali, ma anche nel senso che tali precetti dovevano informare l’interpretazione, da parte dei giudici e dei pubblici poteri in genere, sia delle leggi esistenti sia di quelle future: come è noto, le leggi non prevedono - almeno normalmente - casi particolari (anche se da qualche tempo sono di moda quelle ad personam o contra personam) ma dispongono soltanto in forma generale per poi essere applicate nelle singole ipotesi concrete, sulle quali possono nascere contestazioni e liti. E così la Corte stabilì da un lato l’obbligo per giudici di sospendere il giudizio (penale, civile o amministrativo) e di trasmettere ad essa gli atti in caso di dubbio fondato sulla costituzionalità di una legge ordinaria e dall’altro, tuttavia, quello di esaminare, prima di decidere tale trasmissione, tutte le possibilità che la legge medesima potesse essere interpretata in conformità con la Carta fondamentale.
E qui sotto un certo aspetto si può innestare il discorso sull’articolo 9, il cui secondo comma dispone che “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico della Nazione”.
L’interpretazione secondo la Costituzione e in ossequio alle direttive della Corte ha fatto sì che quella vecchia distinzione tra norma programmatiche e precettive perdesse praticamente di significato. E come, per esempio, sulla base dell’articolo 36 secondo cui “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa” la giurisprudenza ormai consolidata ha costruito il principio del salario minimo sotto il quale non sarebbe consentito scendere (anche se le violazioni purtroppo continuano), allo stesso modo si può dire e si è effettivamente pronunciato, in forza dell’interpretazione evolutiva (quella cioè che tiene conto dell’evoluzione delle condizioni socio-economiche, culturali, tecnologiche e simili, senza tuttavia stravolgere il senso della norma), che nel concetto di “paesaggio”, soltanto estetico se preso alla lettera, rientrano sicuramente e senza forzatura alcuna anche quelle di ambiente, di atmosfera, di acque, di vivibilità urbana e rurale, di natura in genere, di risorse rinnovabili, di fruibilità generale e via dicendo. Nel 1948 infatti, anche se ciò oggi può sembrare strano, l’ecologia e in generale la cultura del territorio e dell’ambiente intese nel senso odierno muovevano appena i primi passi a livello di studi specializzati, e comunque si era ancora ben lontani dal rendersi conto dei pericoli gravissimi che, al di là delle emissioni nucleari dovute alle esplosioni sperimentali poi cessate (almeno nell’atmosfera), il pianeta e il suo clima e gli ambienti naturali stavano correndo per effetto della crescita esponenziale dell’uso dei combustibili fossili, della produzione di scorie tossiche o comunque nocive, della deforestazione soprattutto delle zone nevralgiche regolatrici della circolazione atmosferica (foreste pluviali etc.), della scarsezza o dello spreco dell’acqua, dell’urbanizzazione selvaggia e speculativa e di tutto il resto ben noto.
Perciò, è assolutamente necessario che la “cultura costituzionale”, e per quanto qui interessa quella specifica relativa all’ambiente, bene fondamentale (anche se chiamato semplicemente “paesaggio”) appunto tutelato dalla nostra Carta fondamentale, sia diffusa al massimo possibile, specie tra i giovani che domani dovranno affrontare i rischi e i guasti prodotti dalle generazioni precedenti e i quali, peraltro, dovrebbero essere guidati anche sotto il profilo pratico, in famiglia e nella scuola, al rispetto e al “risparmio” dell’ambiente medesimo, sotto tutti i profili, non ultimo quello di evitare di essere tratti in inganno da chi promette benessere a buon mercato mediante “grandi opere” non rispondenti ai bisogni reali della collettività, distruttrici di risorse naturali e utili soltanto all’incremento di ricchezze individuali.