di Paola Ronco.
Passi l’infanzia a guardare i tuoi genitori consumare i giorni in uffici che sembrano caserme, in cantieri mai messi in sicurezza, in supermercati dove i turni cambiano dall’oggi al domani. Ti spiegano che è così che gira il mondo, che il lavoro bisogna solo ringraziare se c’è, che se ti chiedono di più lo devi fare senza discutere, che tu lo devi venerare il lavoro, perché è la cosa che dà un senso alla tua esistenza...
Ti dicono che questa è la tua vita, uscire al mattino quando è ancora buio, annullarsi per ore nello sforzo di far guadagnare altra gente che ti considera appena un meccanismo dell’ingranaggio, prendere ansiolitici per sopportare la pressione, tornare a casa quando è già buio, sbronzarti nel fine settimana per non pensare al lunedì che viene. E ringraziare, ancora e sempre, perché tu un lavoro ce l’hai, mica come quelle merde che prendono un sussidio, perché non ci sono alternative, perché si è sempre fatto così.
Ti insegnano che la tua vita lavorativa è un problema personale, che se subisci mobbing, molestie, soprusi e ricatti in fondo è solo colpa tua, che se ti licenziano ci sarà un motivo, che non è proprio il caso di farsi notare per difendere chi lavora con te, o chi lavora da tutt’altra parte, perché potresti avere dei guai, e poi non si dovrebbe mai parlare male di chi ti dà da mangiare, come se ti stessero regalando i soldi alla fine di ogni mese, come se tu fossi una merce acquistata e ormai di proprietà altrui.
Ti spiegano che si fa così e tu lo sai talmente bene che ormai, ogni volta che leggi di un’ingiustizia subita da altri, ti senti in dovere di dire che però tu stai peggio, che a te pagano meno, che tu sei partita iva, in nero, a progetto, a tempo, a chiamata. E lo dici quasi con orgoglio, come se subire di più ti rendesse più gradito a chi comanda. Invulnerabile al peggio.
E invece il peggio prima o poi ti raggiunge, sempre.
Sei una ragazza di vent’anni e finisci massacrata da un macchinario manomesso perché non si potevano far perdere soldi al padrone fermandolo.
Sei un ragazzino di sedici anni e cadi giù da una piattaforma alta cinque metri, perché hanno inventato l’alternanza scuola lavoro, così impari subito come funziona.
Sei un gruppo di persone che prova a mettersi insieme per protestare e vieni aggredito da un commando di guardie private, che ti picchiano a sangue sotto gli occhi della polizia immobile.
Sei un sindacalista che partecipa a un picchetto durante uno sciopero e finisci schiacciato da un camion che ha forzato il blocco e scappa dopo averti assassinato.
Ti hanno insegnato a pensare che è meglio non fare niente, subire in silenzio, non alzare la voce. Quante altre persone devono morire prima che inizi a capire che il tuo silenzio serve solo a chi ti sfrutta? Cos’altro deve succedere prima che tu capisca di essere in mezzo a una guerra di classe?