di Flavio Gotta, presidente diocesano dell’Azione Cattolica.
Caporalato vuol dire controllo del mercato del lavoro, potere che sfrutta la miseria altrui, facile guadagno sul lavoro degli altri, abbattimento dei costi, invisibilità rispetto alle istituzioni e sgretolamento della legalità. I suoi frutti: benessere ristretto a pochi, soprusi e minacce, regime della paura, razzismo etnico e culturale (i bulgari contro i macedoni, il pubblico contro il privato), aumento della miseria ed espulsione dal sistema di chi non lo accetta. Se devo essere sincero non vedo molta differenza rispetto agli eccessi del libero mercato, alla voglia di non avere tasse per essere più liberi e potenti, all’abuso di potere di chi deve controllare e a suo piacimento punisce, al mantra della competitività che si riassume in «vita mia morte tua» ...
Vorrei che l’indignazione verso la miseria evidente di queste settimane nella mia terra non servisse solo per affinare i modi di nasconderla, costringendo i miseri a sparire dalla vista per mantenere il lavoro. O un modo per aguzzare l’ingegno e fare contratti che si strappano la sera così da risultare regolari solo in caso di controllo. C’è bisogno di manodopera, delle istituzioni che vigilino ma non siano «forti con i deboli e deboli con i forti», c’è bisogno di non evitare il problema ma di affrontarlo con coraggio e lungimiranza. Troppo spesso ho il timore che appena finita la vendemmia ci si girerà dall’altra parte e dormiremo di nuovo sonni tranquilli.
Quando vediamo delle discariche umane siamo abituati a guardare dall’altra parte, diventando come quelli che hanno orecchi ma non odono, occhi ma non vedono. Non ci accorgiamo - o non vogliamo accorgerci - delle conseguenze delle nostre azioni fino a diventare complici, inconsapevole manovalanza di contorno perfetta per il caporalato, per la mafia di ogni grado e latitudine, per gli oppressori di ogni tempo che hanno gioco facile solo se circondati dalle tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo.
Abbiamo bisogno, invece, di uomini e donne coraggiosi che vedono, ascoltano e parlano, dobbiamo imparare a premiarli votandoli, comprando i loro prodotti, puntando sulla sostenibilità ambientale se vogliamo veramente investire sul futuro. E ognuno di noi può farlo quando nel negozio scegliamo prodotti di qualità ed etici senza fermarci al prezzo più basso (che favorisce il caporalato), quando evitiamo di cercare informazioni riservate per vincere appalti e concorsi, quando non imploriamo raccomandazioni per trovare lavoro, ma anche quando esercitiamo la giustizia e passiamo dalla competizione alla collaborazione. Scrollare le spalle dicendo che il problema non ci riguarda è da miopi, lo sfruttamento altrui ci tornerà indietro perché è uno stile, una forma mentale, una filiera lunga, internazionale, che porta veleno nelle nostre vite.
Se non ci interessa farlo per gli altri facciamolo almeno per noi! E’ a un passo il rischio che tocchi a noi, ai nostri figli sottopagati o disoccupati, ai nostri prodotti non protetti impossibilitati a reggere la concorrenza, alla qualità della nostra vita sul Pianeta che può diventare insostenibile. Se non faremo questo cambio di mentalità (che si può anche chiamare «conversione») dovremo per coerenza almeno smetterla di lamentarci o finiremo come gli ipocriti: neanche i nostri figli avranno nostalgia di noi!
Ho provato a fare alcune riflessioni a titolo personale, frutto di un cammino che mi ha insegnato a non estraniarmi dalle cose che accadono attorno a me. Sono tante le persone che spronate dall’annuncio della buona notizia oggi sono in prima linea, a ospitare in casa propria, a preparare i pasti per chi non ha di che da sostenersi. Occorre farci forza reciprocamente, unirci con tutte le persone di buona volontà per vedere che siamo ancora in tanti a voler realizzare un mondo più giusto, bello e solidale.