A cura della Presidenza nazionale ACLI.
Alcuni segnali di ripresa più che dare qualche certezza indicano che non siamo senza possibilità di affrontare la crisi. Tuttavia, alla disoccupazione e all'impoverimento sempre più diffuso si affianca un quadro internazionale sempre più critico, per non dire fuori controllo. E sempre più drammaticamente vicino e sconvolgente, come ci ricorda la continua strage nel nostro mare di persone e famiglie che fuggono da guerre e persecuzioni. Continuare a derubricare questa crisi a un pur concreto problema di PIL, rischia di essere fuorviante e illusorio, se non di abbandonarci ad amari risvegli ...
La vera crisi non è l'assenza di ricchezza o vocazioni per creare ancora lavoro e progresso sociale, ma l'assenza di un quadro collettivo: la diffusa difficoltà, sia come singoli che come territori, parti sociali, Paese e Paesi, di vedersi insieme di fronte ai problemi e ai cambiamenti, e non gli uni contro gli altri; a vantaggio della logica del più forte, che poi è la logica del più scaltro e del più protetto, vera anticamera e seme della corruzione e delle mafie.
L’aver vissuto e interpretato il mondo secondo l’idea che, come ebbe a dire un tempo Margaret Thatcher “la società non esiste, esistono solo i singoli individui”, ci consegna oggi un contesto locale e globale sempre più eccessivamente competitivo e quindi patologicamente spaventato e aggressivo. Pensare che se ne esca solo con scelte strettamente economiche non funziona. Invece di immolare l’intera società all’obiettivo della crescita economica dobbiamo tornare ad una economia che si dia come obiettivo la crescita della società.
LOTTARE CONTRO L’INEQUITA’
In tutto questo quadro spicca il ritardo dell’Unione Europea nel fare passi avanti nel proprio processo di unità e promozione di un modello sociale nel quale sviluppo e solidarietà si sostengano a vicenda. Il rapporto con il resto del mondo rischia di essere lasciato solo all’incontro e al graduale avvicinamento dei diversi mercati, come testimoniano le criticità dei poco visibili trattati di libero commercio, in particolare quello in corso di definizione tra USA-UE (TTIP). Così il confronto avviene tutto sulla competizione economica e non sulla promozione di modelli sociali. Il tutto mentre l’alleanza sviluppo-solidarietà rappresenta la strada maestra da percorrere. Punto di partenza nel quale il lavoro non viene derubricato al solo pur importante impiego individuale, ma continua a essere un diritto e un dovere, un bene comune alla base del nostro essere tutti parte di un destino comune.
Come abbiamo scritto nella presentazione della nostra campagna “NESSUNO ESCLUSO. Ridurre le diseguaglianze, eliminare la povertà, per riconciliarci con il futuro” (http://www.acli.it), che diffondiamo in queste settimane: un male che pensavamo consegnato alla storia non è mai stato totalmente bandito e – anzi – ha ripreso grande vigore.
I dati parlano chiaro: poco più di 4000 mani controllano il 4% della ricchezza del mondo, mentre 7 persone su 10 vivono in Paesi dove la disuguaglianza è aumentata negli ultimi trent’anni, e dove l’1% delle famiglie del mondo possiede il 46% della ricchezza globale (110.000 miliardi di dollari).
In Italia, l’1% più ricco della popolazione ha aumentato la propria percentuale di reddito di poco meno del 50% negli ultimi anni (Rapporto Oxfam).
La vera ricchezza la produce il lavoro che è il concorso di una serie di fattori e di soggetti e in generale di intere comunità. E' inconcepibile che questa ricchezza alla fine tenda a divenire appannaggio di pochi, mentre si riducono le garanzie della maggior parte. Questa ci pare la radice di quella inequità che nell'Evangelii Gaudium di Papa Francesco viene definita la radice dei mali sociali.
Abbiamo indicato politiche e scelte coraggiose in campo fiscale e per la riforma della finanza (quasi assente nelle agende della politica), per il rilancio del welfare, per l’estensione dei diritti, per il lavoro. Centrali restano il lavoro e le condizioni di lavoro. E, in un quadro dove, per esempio, in Inghilterra si prevede nel giro di pochi lustri il ridursi di un terzo dell'occupazione per il solo procedere della rivoluzione informatica, centrali sono le soluzioni per ridistribuire il lavoro e con esso una piena e generale cittadinanza. Per esempio partendo dal favorire una politica di solidarietà tra generazioni, consentendo pensionamenti part time con regole pre Fornero laddove ci sia un nuovo ingresso part time.
LOTTARE PER LA DIGNITA’
Il 24 aprile 2013 deve essere una data ricordata in ogni Primo Maggio. Quel giorno il crollo del Rana Plaza, in Bangladesh, fece tra i lavoratori schiavizzati 1129 morti e 2515 feriti. Lavoratori impegnati a costruire i nostri abiti a prezzi accessibili, ma certamente mai stracciati quanto i loro diritti. Quanta distanza c’è tra i guadagni di pochi e i rischi di tanti.
Così come non possiamo non pensare in queste ore drammatiche per le tragedie del mare e del terremoto in Nepal che non ci sia anche in queste vicende una forte componente legata alla povertà e all’ingiustizia di scelte di cosiddetto sviluppo che non considerano più la vita umana un bene inestimabile. E anche 1 o 2 Euro a cittadino all’anno, tali sono i costi di operazioni di soccorso e contrasto ai trafficanti come Mare Nostrum, diventano troppi soldi da spendere. Di nuovo il problema della crisi sono proprio i soldi? O i soldi ci sono, ma diventano sterile ricchezza se non torniamo a percepirci quotidianamente come una unica stessa umanità?
Sono domande e impegni che portiamo con noi anche nell’esperienza di partecipazione che vede la nostra associazione insieme a tantissime realtà del mondo del Terzo Settore che dando vita a Cascina Triulza diventano protagonisti di una presenza inedita all’interno di Expo 2015 – Nutrire il pianeta, energia per la vita. Lavoreremo per reclamare un salto di qualità globale che rimetta in luce i diritti e l'urgenza di una cittadinanza globale dove qualità e dignità dei beni e qualità e dignità della vita e delle condizioni dei lavoratori e delle persone devono essere una stessa cosa.
IL JOBS ACT E OLTRE
In questo quadro il nostro Paese ha posto a tema il lavoro concentrandosi soprattutto sul lavoro inteso come impiego e sulla capacità del mercato del lavoro di funzionare.
Come abbiamo già scritto in altri documenti (La forza del lavoro, che contiene anche le nostre proposte per creare, redistribuire e far emergere il lavoro) il disegno del Jobs Act si è dato una serie di intenti importanti, cominciando dall'esigenza di fare chiarezza e di far uscire dalla straordinarietà e rendere stabili e universali gli ammortizzatori, le tutele, le politiche attive del lavoro, l’individuazione di un salario minimo laddove non ci sono le coperture contrattuali, la conciliazione, la semplificazione delle norme e la riduzione di troppi contratti flessibili; nonché una riapertura a misure che consentano di ridistribuire il lavoro che c'è ("lavorare meno lavorare tutti”), proprio come avviene in Germania e in altri paesi. Ora riteniamo di esprimere alcune considerazioni sui primi decreti. I dati sui nuovi assunti paiono dare qualche segnale, ma grazie al forte incentivo previsto.
BENE L’INTENTO DI RIDURRE E RICONDURRE AD ALCUNI CASI I CONTRATTI FLESSIBILI
Va valorizzato lo sforzo per il superamento di alcuni contratti che giocavano molto sulla precarietà e per ricondurre i contratti di collaborazione a progetto alla contrattazione collettiva di settori specifici. Anche se va chiarito, limitato, e soprattutto controllato contro gli abusi, il lavoro accessorio. Il tema della lotta alla precarietà va esteso prevedendo un rapporto più corretto tra Pubblica Amministrazione e propri fornitori e partner, specialmente intervenendo sulle gare al massimo ribasso e sui tempi di pagamento ancora spesso assurdi.
Ci pare anche da menzionare il tentativo di rendere più praticabile e chiaro l’apprendistato. Soprattutto il riferimento alla formazione professionale va nella direzione di mettere effettivamente in gioco un percorso di qualificazione e crescita professionale, e più in generale d’incontro con il mondo del lavoro, senza il quale questo contratto perderebbe la propria specificità o copierebbe troppo rigidamente modelli a cui ispirarsi tipo quello tedesco, senza considerare che parliamo di contesti produttivi radicalmente differenti.
I LICENZIAMENTI DEVONO AVERE DELLE MOTIVAZIONI REALI
Spiace rilevare che la legge prevedesse già la possibilità anche oltre i 15 dipendenti di licenziare per motivi economici o organizzativi (economici non significa che l'azienda ha problemi particolari, ma che non può essere produttiva come vorrebbe), tra cui lo scarso rendimento, che non fossero palesemente falsi. Per i nuovi assunti da ora in poi il reintegro per manifestatamente falsa motivazione viene meno. In sostanza anche se si dice il falso e si sostituisce il lavoratore, si può non reintegrarlo. Questo in considerazione del fatto che già oggi oltre il 70% dei casi di licenziamento sono individuali per giustificato motivo oggettivo (cosiddetti “economici”: 714.000 su 923.000 nel 2013).
Pur comprendendo lo stato d’animo di molti imprenditori troppo spesso sfiduciati da troppe regole e burocrazia, crediamo si faccia un torto a molti lavoratori, per i quali il divieto di licenziare senza alcun motivo anche solo di opportunità organizzativa rappresenta un deterrente contro gli abusi e involontariamente di favorire le situazioni di ricatto, purtroppo non rare nel nostro Paese; e talvolta sappiamo anche legate a uno scarso rispetto delle norme sulla sicurezza.
Non solo, si rischia anche di fare un torto a quegli imprenditori seri, i più, che basano il loro lavoro e la loro capacità di competere sulla serietà e sulla sincerità. Per molti di loro, di dimensioni non grandi, dover pagare fino a un massimo di 24 mensilità può magari rappresentare un deterrente, ma non va dimenticato che in molti settori per alcuni grandi soggetti questo effetto non esiste.
E spesso sono proprio quei contesti, pensiamo ad alcune multinazionali nei servizi, nei quali il lavoro rischia di tornare a ritmi e pressioni sul lavoratore d’altri tempi. Lavoratori ai quali vengono chiesti orari e disponibilità senza troppa considerazione, per fare un esempio reale tra i tanti, se magari si è appena perso il marito e si vorrebbe vedere i figli non solo la domenica.
Viene introdotta l’estensione ai contratti collettivi senza dover tenere conto delle esigenze e delle condizioni differenti dei lavoratori, di fatto disconoscendo la loro possibilità di essere ascoltati nella gestione delle situazioni di ristrutturazione o di crisi. Siamo molto lontani dal celebrato modello tedesco che arriva a garantire ai lavoratori la codeterminazione delle politiche delle aziende.
L’IMPORTANTE SFORZO PER LE POLITICHE ATTIVE VEDA CENTRALE LA FORMAZIONE E SI RIAPRA AL TEMA DELLA PARTECIPAZIONE
Il tema delle politiche attive vorremmo fosse il vero tema cardine. Innanzitutto si dovrà promuovere una politica nazionale che non cali dall’alto, ma promuova politiche del lavoro locali con la partecipazione degli attori del territorio perché in realtà non esiste un mercato del lavoro italiano, ma tanti mercati del lavoro locali, profondamente differenti, per territorio e non solo.
In questo senso delle vere politiche attive devono vedere centrale lo sforzo per la formazione, in particolare professionale, introdotta nell’iter parlamentare della delega, e che diventa centrale, e non deve essere vista solo come intervento di sostegno alla ricollocazione. Sarebbe per esempio importante che insieme alla riforma della Scuola si inserisse un piano per elevare il livello di istruzione e qualificazione di chi già lavora, per prevenire le situazioni di crisi creando contesti più aperti all’innovazione e per, nel caso di crisi, essere più abituati al riqualificarsi, processo essenziale per rispondere attivamente alla perdita del lavoro.
Aspetto strategico in altri Paesi, per fare squadra impresa-lavoratori è proprio la partecipazione dei lavoratori alla codeterminazione dell'azienda, perché crea nel medio e lungo periodo quel senso di appartenenza sul quale si costruisce un confronto aperto all'innovazione. Si deve recuperare il tema della partecipazione che la riforma precedente aveva previsto con una delega poi scaduta. Sarebbe un grande passo avanti.
SERVE LOTTA ALLA POVERTA’ E UN WELFARE SOCIALE CONTRO IL RISCHIO DI POVERTA’ PER SCONFIGGERE LA PRECARIETA’ E FAR DIVENIRE CENTRALI LE POLITICHE DI CONCILIAZIONE
Bene lo sforzo sulla conciliazione. Tuttavia gli ammortizzatori pur essendo più estesi rischiano di essere meno consistenti, come denunciato nei giorni scorsi dal caso dei lavoratori stagionali, e occorrerebbe un intervento più ampio sui lavoratori a partita Iva. Inoltre perché l’estensione delle tutele sia reale e la conciliazioni diventi un motore dello sviluppo, perché in grado di non opporre famiglia e lavoro, occorre che a fianco di un rafforzamento degli ammortizzatori previsti si apra una stagione di rilancio del welfare sociale. Qui il divario con l’Europa è enorme. Serve un percorso per addivenire a una rete solida, anche qui da costruire con gli attori del territorio locale, che garantisca innanzitutto una misura universale contro la povertà assoluta come il Reis (Reddito di Inclusione Sociale, del quale siamo promotori all’interno dell’Alleanza contro la povertà), servizi adeguati su un altro fattore di rischio povertà come la nonautosufficienza e una politica dell’infanzia e della famiglia.
GUARDARE AL MEGLIO DI NOI STESSI: UN PATTO PER IL LAVORO
Alle imprese serve sostegno nei loro investimenti in innovazione, internazionalizzazione, nel mettersi in rete, nella crescita professionale del personale, nel non doversi muovere in mercati corrotti o dove prevalgono le conoscenze e la furbizia. E per farlo serve una più forte partecipazione e corresponsabilità dei lavoratori, servizi e una pubblica amministrazione meno inefficienti e più flessibili, oltre all’importante alleggerimento della tassazione sul lavoro.
Servono politiche industriali che scelgano delle priorità valorizzando le vocazioni del Paese sia nella manifattura, che nell’agroalimentare, nell’asse cultura-turismo-welfare, nella sostenibilità, nell’essere al centro del Mediterraneo e nella nostra rete portuale (la cui incompiutezza, tutta politica, viene calcolata costare al Paese più dell’Irap e quanto l’intero export alimentare).
Attorno a queste sfide Governo, Sindacati, Imprese e Terzo settore trovino una intesa strategica.
Viene ancora in mente la testimonianza di Adriano Olivetti che vedeva nella qualità della vita del territorio e della condizione dei lavoratori, insieme, il fine e il presupposto della bellezza e della creatività dei suoi prodotti. E inventò il primo computer al mondo. Prima di morire prematuramente studiava come dividere la proprietà in parti eguali tra famiglia, comunità, università e lavoratori.
Abbiamo ancora qualcosa da imparare dal meglio di noi stessi e forse possiamo rintracciare insieme un “modello Italia” da proporre alla austera e chiusa Europa.