Da quando “pubblico” (“proprietà pubblica”, “suolo pubblico”, “spiagge pubbliche”, “opere pubbliche”) e Stato (con la esse maiuscola), sono diventate parolacce, ci si ritrova - in piena crisi economica - ad invocare l’intervento dello Stato (cioè di soldi dei cittadini) per aiutare le industrie che non riescono a vendere quello che producono, aiutare le Banche che hanno fatto male il loro mestiere e per “infrastrutture”. E’ questo il nuovo nome dei lavori pubblici e delle opere pubbliche (strade, ponti, porti e simili) fatte per migliorare le condizioni di vita ed economiche del paese e, nello stesso tempo, per assicurare occupazione ai lavoratori e lavoro alle imprese ...
L’intervento “pubblico” sul territorio ha una lunga e non vile storia.
Era stato Cavour, nel primo governo dell’Italia unita, nel 1861, a istituire un Ministero dei “lavori pubblici”, sopravvissuto per 140 anni; nel 2001, col secondo governo Berlusconi, fu trasformato in Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Nel 2006 il secondo governo Prodi divise in due il Ministero creando un Ministero dei trasporti e un Ministero delle infrastrutture; infine il quarto governo Berlusconi riunì i due ministeri in uno chiamato di nuovo Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Una parte delle competenze del vecchio Ministero dei lavori pubblici sono state affidate al Ministero dell’ambiente, del territorio e della difesa del mare.
Già questo turbinio di nomi sembra indicare la mancanza di una visione unitaria delle opere e dei lavori “pubblici” da fare nell’interesse della collettività nazionale.
Mi vengono in mente questi pensieri leggendo che l’attuale governo intende investire molti miliardi di euro, si parla di circa 18, di “pubblico” denaro nelle infrastrutture della cui mancanza in tanti parlano come una delle cause del ritardo della nostra economia. Fra le previste infrastrutture vi sono il ponte sullo stretto di Messina e altre opere stradali e ferroviarie. Non esprimo un parere sulla utilità, sulla fattibilità, sui costi e sulla utilizzabilità di un ponte esposto a condizioni ostili di accessibilità e di vento. Però mi chiedo se, fra le opere urgenti da finanziare con “pubblico” denaro, non abbiano priorità gli interventi per la difesa del suolo e la regolazione delle acque, in un sempre più fragile territorio come quello italiano, interventi capaci di assicurare occupazione ai lavoratori e lavoro alle imprese.
Si assiste ogni anno, ogni mese, ogni settimana, ai disastri causati dalle tante piogge che colpiscono il nostro paese, che sembrano destinate a farsi più frequenti e i cui effetti compromettono la utilizzabilità di ponti, strade e ferrovie, oltre a distruggere abitazioni e raccolti, ricchezze pubbliche e private. Tanto più che sul suolo “poggia” qualsiasi altra infrastruttura, presente e futura, siano ponti, ferrovie, autostrade.
Vorrei ricordare che proprio con opere di difesa del suolo e di regolazione dei fiumi (cioè con la soluzione di problemi “ambientali”, molti decenni prima della moda dell’“ecologia”) Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) fece uscire l’America dalla crisi del 1929, così simile a quella che stiamo vivendo. Il 14 marzo 1933, dieci giorni dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Roosevelt finanziò un programma per avviare un esercito di giovani disoccupati al lavoro nei boschi e nella difesa del suolo, i Civilian Conservation Corps. Nell'estate del 1933 trecentomila americani, dai 18 ai 25 anni erano impegnati nei lavori di difesa del suolo che da molti anni erano stati trascurati. Negli anni successivi, in varie campagne, due milioni di giovani lavoratori, complessivamente, piantarono 200 milioni di alberi, ripulirono il greto dei torrenti, prepararono laghetti artificiali per la pesca, costruirono dighe, scavarono canali per l'irrigazione, costruirono ponti e torri antincendio, combatterono le malattie dei pini e degli olmi, ripulirono spiagge e terreni. Nello stesso tempo nel bacino idrografico del fiume Tennessee venivano costruite dighe e centrali idroelettriche che fornirono la prima elettricità “pubblica” dell’America del Nord.
Roosevelt poteva contare su collaboratori competenti e di grande dedizione: la responsabilità dei lavori pubblici fu affidata al ministro dell’interno, Harold Ickes (1876-1952), che nel giugno 1933 destinò 5 milioni di dollari di allora per opere di difesa del suolo e mise uno specialista del settore, Hugh Bennett (1881-1960), a capo di un nuovo ufficio contro l’erosione del suolo, oggi denominato servizio per le risorse naturali.
Si potrebbe obiettare che le grandi infrastrutture, oltre a produrre ricchezza per le imprese e assicurare occupazione ai lavoratori, hanno anche vantaggi economici in tutti gli altri settori dell’economia. Ma la stessa osservazione, anzi a maggior ragione, vale per le opere di lotta all’erosione e di gestione delle acque. Da una parte esse consentono di evitare costi e dolori dovuti a frane e alluvioni: per restare alla Puglia, ancora una volta nei giorni scorsi anche i pochi fiumi pugliesi, Ofanto e Fortore, per mancanza di manutenzione e di pulizia del greto dei torrenti, hanno invaso con le loro acque, anche inquinate, i terreni circostanti. Poi consentono di evitare sprechi come la perdita delle grandi quantità di acqua che, invece di irrigare campi assetati, finiscono nel mare per mancanza, magari, di poche centinaia di metri di canalizzazioni.
Nuove opere di difesa del suolo consentirebbero di fermare la continua diminuzione della capacità di invaso dei laghi artificiali, gradualmente riempiti dai detriti dell’erosione delle valli circostanti. In secondo luogo le opere di difesa del suolo e di regolazione delle acque creano diretta ricchezza attraverso l’aumento della produzione di energia idroelettrica da piccoli salti di acqua, un capitolo trascurato nel campo delle energie rinnovabili, consentono di aumentare la produzione agricola e forestale, in parte utilizzabile come fonte di energia rinnovabile anch’essa, e favoriscono il ritorno di attività economiche nelle zone interne dell’Italia, alleggerendo la congestione delle coste. L’unico vero inconveniente delle opere pubbliche di difesa del suolo sta nel fatto che non si possono inaugurare con grandi cerimonie, con codazzi di ministri e autorità; esse sono basate sul lento, silenzioso, efficace lavoro di centinaia di migliaia di persone: quello che conta e che è veramente utile al paese.
Tratto da: La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 17 marzo 2009.