Lorenzo Germani e Francesca Pierini ricordano che negli ultimi anni sono stati elaborati diversi indicatori multidimensionali del benessere che consentono di "andare oltre il PIL". I due autori notano anche che tali indicatori occupano un posto marginale nel processo di policy making e illustrano i benefici che potrebbero derivare da una loro effettiva inclusione tra gli indicatori di benessere in quel processo. Inoltre, Germani e Pierini indicano una serie di criticità che riguardano in particolare il contesto italiano...
Negli ultimi anni il tema della misurazione del benessere e del progresso della società ha assunto un’importanza crescente anche a seguito della necessità, avvertita a livello globale, di andare “oltre il PIL”. All’interno dei dibattiti pubblici si era fatta strada l’idea che il progresso e il benessere di un Paese non fossero adeguatamente rappresentati dalla sola crescita economica; la limitata disponibilità di risorse naturali e la sempre maggiore attenzione a valori quali la giustizia, l’inclusione, la tutela dell’ambiente, hanno portato a elaborare una nozione di sviluppo che prendesse in considerazione i bisogni del presente senza compromettere quelli del futuro. Sull’onda di questo nuovo consenso internazionale sono state avviate numerose iniziative da parte di istituzioni internazionali, europee e nazionali e gli istituti statistici di tutto il mondo hanno migliorato enormemente le metriche in grado di monitorare la qualità della vita.
L’Italia ha sviluppato una definizione condivisa di benessere a livello nazionale, il Benessere Equo e Sostenibile (BES), e, come l’Italia, molti altri Paesi hanno sviluppato dei framework nazionali, contribuendo ad alimentare il consenso verso misurazioni multidimensionali del progresso. Nonostante questi avanzamenti, però, gli indicatori di benessere occupano un ruolo ancora molto marginale nel policy-making.
I sistemi di monitoraggio del benessere sorti a livello nazionale non hanno portato a un cambiamento di paradigma nel modo in cui le politiche vengono concepite, realizzate e valutate. Sebbene alcuni Paesi, tra cui l’Italia, abbiano avviato delle sperimentazioni che prevedono un collegamento tra indicatori di benessere e programmazione di bilancio, le variabili economiche continuano a rappresentare la bussola delle politiche pubbliche. L’adozione di meccanismi istituzionali che tengano realmente conto delle varie dimensioni di benessere, dell’ambiente e degli effetti eterogenei delle politiche sui differenti gruppi sociali potrebbe portare, invece, numerosi vantaggi come sostenuto, fra gli altri, da Stiglitz, Fitoussi e Durand (Beyond GDP: Measuring What Counts for Economic and Social Performance, 2018).
Un primo beneficio si otterrebbe a livello di coesione e cooperazione delle agenzie governative, che spesso operano senza tenere in considerazione gli spillover delle politiche di cui sono direttamente responsabili. L’identificazione di un insieme di outcomes relativi alle varie dimensioni di benessere, su cui valutare tutte le politiche, può essere utile per aumentare la coerenza delle azioni del governo e creare un linguaggio comune tra le agenzie per discutere di questi impatti. Tale meccanismo, poi, offrirebbe la possibilità ai decisori politici di individuare gli effetti dei programmi e articolare trade-off e spillover in modo più esplicito e trasparente, migliorando l’accountability. Inoltre, tenendo in considerazione indicatori relativi alle dotazioni di capitale in senso ampio (naturale, umano, sociale ed economico), la valutazione delle politiche acquisterebbe un’ottica di più lungo periodo e controbilancerebbe la prospettiva di breve periodo adottata nella maggioranza degli interventi normativi. Infine, un sistema integrato di monitoraggio, valutazione e di rapporti periodici stimolerebbe il dibattito pubblico su ciò che è realmente importante per la qualità della vita e aiuterebbe a promuovere una discussione diffusa a tutti i settori della società (partiti politici, società civile, imprese, singoli cittadini).
Con la legge 163 del 2016, l’Italia si è mossa in questa direzione. Gli indicatori del “Benessere Equo e Sostenibile” (BES) sono entrati per la prima volta nel Documento di Economia e Finanza (DEF) attraverso un allegato che riporta l’andamento dell’ultimo triennio di alcuni indicatori selezionati e la previsione per alcuni di essi nel periodo di riferimento. Attualmente sono 12 gli indicatori considerati e riguardano otto dei dodici domini del BES. La selezione ha interessato gli aspetti più direttamente influenzabili dalle politiche pubbliche e in particolare la scelta è ricaduta su: reddito medio disponibile pro capite; diseguaglianza del reddito disponibile; povertà assoluta; speranza di vita in buona salute alla nascita; eccesso di peso; uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione; mancata partecipazione al lavoro; rapporto tra occupazione delle donne di 25-49 anni con e senza figli in età prescolare; criminalità predatoria; efficienza della giustizia civile; emissioni di CO2 e altri gas clima alteranti; abusivismo edilizio.
È stato un passo rilevante ma ancora limitato e va scongiurato il rischio che rimanga “un allegato con scarso impatto politico”, come sottolineato da Enrico Giovannini in occasione del decennale del percorso BES. Ad oggi, infatti, l’iniziativa non sembra avere un effetto significativo sul processo di decisione politica, in un contesto in cuil’emergenza pandemica ha reso ancora più evidente l’importanza di considerare il benessere come un fenomeno multidimensionale. Il motivo per il quale tale innovazione normativa ha mostrato un’efficacia ridotta sembra risiedere nella mancanza di un vero collegamento tra le misure legislative e gli indicatori. Nonostante un importante lavoro di analisi presente nell’allegato, questo sembra viaggiare su un percorso separato rispetto a quello che definisce la programmazione economica del Paese, con pochi punti di contatto che si esauriscono con una discussione in Parlamento, spesso poco partecipata.
Se da un lato predisporre tale collegamento ci pone indubbiamente di fronte a complesse sfide metodologiche, a cominciare dalla necessità di modelli previsivi e valutativi adeguati, altre esperienze mostrano come sia possibile prevedere meccanismi più incisivi. Le riforme e gli investimenti del PNRR, ad esempio, sono corredati da milestone e target (M&T) definiti ex-ante ai quali sono vincolate le tranche di finanziamento. Mentre i milestone sono più di carattere attuativo e procedurale, i target sono obiettivi influenzabili direttamente o indirettamente dalle politiche pubbliche e sono quantificati, cioè associati a indicatori misurabili. Un sistema simile potrebbe essere applicato alla legge di bilancio nella fase di discussione in Parlamento: unitamente agli obiettivi delle proposte normative, già presenti nella relazione illustrativa, si potrebbe prevedere il collegamento con una serie di indicatori di benessere. Tale meccanismo, come si è già detto, potrebbe essere in grado di stimolare il dibattito pubblico, migliorare la discussione politica e l’accountability.
Anche il tema della sostenibilità e della tutela del capitale naturale sembra scontare un approccio eccessivamente timido. Mentre il rapporto deficit/PIL, come indicatore sintetico dello stato delle finanze pubbliche nazionali, ha consolidato la sua importanza ed è stato reso vincolante per i governi europei – nonostante le criticità evidenziate da numerosi economisti e osservatori – lo stesso non si è fatto per gli indicatori ambientali, salvo in casi rari e marginali. Gli effetti potenzialmente catastrofici dell’emergenza climatica, però, già ci vincolano idealmente ad azioni urgenti e coraggiose; la riduzione delle emissioni di CO2 e di altri gas clima-alteranti, ad esempio, potrebbe e dovrebbe essere perseguita anche attraverso l’inclusione vincolante di tali indicatori, già a partire dalla fase di redazione della legge di bilancio. Nel nostro Paese la legge 221 del 28 dicembre 2015 ha istituito il “Comitato Nazionale per il Capitale Naturale”, innovazione normativa di cui si è parlato anche sul Menabò. Nelle intenzioni del legislatore, il rapporto sullo stato del capitale naturale doveva essere uno strumento chiave, utile anche per la programmazione economica. Nella realtà, la tardiva presentazione del rapporto non consente un suo utilizzo ai fini della stesura del DEF e i primi rapporti evidenziano una scarsa integrazione del capitale naturale nei meccanismi di valutazione e monitoraggio delle politiche.
A questo riguardo vale la pena notare che la normativa in materia di analisi di impatto della regolazione (AIR) e verifica di impatto della regolamentazione (VIR) ha visto importanti avanzamenti negli ultimi anni con un nuovo regolamento (D.P.C.M. n. 169 del 15/09/2017) e la nuova guida AIR (Direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 16 febbraio 2018). Quest’ultima declina in modo specifico il significato di impatto ambientale, sociale ed economico, indicando nel dettaglio cosa prendere in considerazione, ma senza prevedere una batteria di indicatori misurabili. Per alcune di queste grandezze esistono indicatori BES che potrebbero essere utilizzati, come proposto anche da Bruni e Mazzantini, e si potrebbe prevedere l’utilizzo anche dei numerosi strumenti di valutazione quantitativa presenti nel Rapporto sul Capitale Naturale. Ciò consentirebbe un’analisi puntuale e non solo qualitativa delle misure di politica economica.
L’impressione è che si proceda in ordine sparso e per alcuni aspetti in modo poco coraggioso. Agli indubbi avanzamenti che si sono fatti in materia, andrebbero affiancate iniziative in grado di integrare gli sforzi per riuscire finalmente a modificare in maniera sostanziale il modo in cui le politiche vengono concepite e valutate. È necessario fare un ulteriore passo in avanti, creando un reale collegamento tra gli indicatori di benessere e gli interventi normativi, per arrivare a adottare definitivamente un approccio multidimensionale al benessere.
Tratto da: https://eticaeconomia.it/oltre-il-pil-indicatori-di-benessere-e-processo-politico/