Spesso, come cittadina abituata e “costretta” da ciò che accade ad occuparsene, mi sono trovata a documentarmi e discutere di tematiche ambientali.
E spesso mi sono resa conto di come, nonostante l’aumentata sensibilità verso questi argomenti, per troppi continuino ad essere avvertiti come distanti rispetto ad altri, avvertiti come più urgenti e reali. Tranne che non ci si ritrovi poi a vivere in prima persona situazioni drammatiche che alzano improvvisamente, e molte volte tardivamente, il livello di attenzione su ciò che fino a ieri avevamo trascurato.
Quanto blando e fin troppo tranquillo sia il nostro atteggiamento nei confronti di queste tematiche, mi è apparso particolarmente chiaro nell’incontro avuto la sera del 16 giugno al Centro culturale san Secondo di Asti con suor Lettebhram e suor Gebretnsae delle Cappuccine francescane e la cui comunità di provenienza si trova a Segheneiti, un villaggio dell’Eritrea dove suor Lettebrham in particolare, è la referente della piccola associazione “Dodiciceste”, che si occupa di creare microprogetti lavorativi per rendere autonome economicamente le giovani vedove di guerra che vivono in quel paese e che spesso sono rimaste sole a sostenere famiglie smembrate dalla guerra, senza alcuna altra risorsa.
Suor Lettebrahm parla un italiano corretto e senza fronzoli, che somiglia molto a lei e alla situazione di cui riferisce senza inutili giri di parole. Quando le viene chiesto quale sia il problema essenziale di una nazione con un’altissima percentuale di orfani, vecchi e mutilati di guerra e con una situazione politica ancora molto chiusa e complicata, non ha dubbi: “Il nostro problema è l’acqua” dice “senza l’acqua non si fa nulla.”
E spiega come, fino all’800, l’Eritrea fosse coperta di foreste e fosse una terra fertile e piovosa; lo era anche all’inizio del XX secolo, ma poi, il passaggio delle varie ondate di colonialismo a cui è stata sottoposta, prima l’italiana e successivamente l’inglese, ha iniziato una deforestazione allo scopo di accaparrarsi a fini commerciali dell’enorme e pregiato patrimonio boschivo. Le conseguenze a cui tutto questo portava, al principio, non sono state chiare, ma poi, man mano che scompariva la foresta, pioveva sempre di meno e non riusciva più a sopravvivere nemmeno la vegetazione residua.
La falda d’acqua si abbassava e tutto cambiava molto rapidamente, finchè in meno d’un secolo un paese florido, da cui la popolazione traeva le risorse per vivere dignitosamente, si è trasformato in un deserto, dove persino i telai, pesanti come una condanna degli dei, sono di ferro, perché il legno è merce rarissima e preziosa.
Ma non sono stati gli dei a volere la condanna dell’Eritrea, così come non sono gli dei a vendere alla popolazione semi che danno piante da cui non si può ricavare nuova semente o galline che fanno le uova, ma non sono in grado di fare i pulcini cosicché, nonostante ogni sforzo, le persone rischiano di dover sempre iniziare daccapo e di non essere mai autonome.
Le conclusioni suor Lettebrahm non le tira mai, lo lascia fare agli italiani delle “Dodiciceste” presenti in sala. Lei si limita ad esporre i fatti e si vede benissimo che è abituata a vivere in una situazione dove per portare avanti una scuola materna, un orfanotrofio con duecento bambini e dare sostegno ad una scuola di tessitura con 50 posti, ad una piccola cooperativa di tessitrici, le otto donne di “Marta e Maria” e a due nuove cooperative simili (“Gruppo Gabriela”, dal nome di una donna combattente di Segheneiti e “Giuditta”), bisogna saper fare molto silenzio e sapersi muovere con discrezione e determinazione, attraverso piste che per noi, che forse abbiamo distorto il concetto di democrazia, prezioso quanto l’acqua, sembrano ricordi atavici.
Forse sarebbe bene ricordare più spesso che sia l’ambiente che la democrazia, sono due sistemi estremamente instabili, di cui bisogna prendersi cura perché abbiano la possibilità di continuare a svilupparsi e dare i loro frutti.
Bruno Giaccone, il referente astigiano di “Dodiciceste” , che con la moglie Marilena Terzuolo, tessitrice esperta e presidente dell’associazione, si è recato più volte in Eritrea per aiutare l’avvio dei progetti, quest’inverno è finalmente riuscito ad allacciare l’orfanotrofio e la scuola materna all’acquedotto, attraverso un semplicissimo sistema di tubi che è costato intorno ai mille euro: dagli occhi di suor Lettebrahm, che è estremamente contenuta nella manifestazione dei suoi sentimenti, sfugge un sorriso d’orgoglio e di soddisfazione quando dice che finalmente i bambini hanno un orto che produce verdure preziose per la loro alimentazione (carote, coste, insalata, aglio, cipolle), per cui lei e le consorelle non devono più dipendere da terzi.
L’indipendenza: un altro concetto a cui noi siamo ormai così poco abituati a fare caso; un concetto talmente essenziale (vogliamo dire come l’aria, questa volta?), per la crescita della civiltà e della singola persona nella rappresentazione del sé, della propria dignità e dello spazio vitale a cui si ha diritto in questo mondo, da venire osteggiato con ogni metodo.
Le autorità locali eritree, ad esempio, ostacolano non solo l’importazione della lana per i lavori di tessitura (il cotone è autoctono: quando piove a sufficienza, sulle montagne se ne producono due raccolti l’anno), ma anche l’esportazione dei manufatti. Forse non ce ne rendiamo conto, ma delle giovani donne che si rendono autonome possono essere la chiave per il cambiamento della società: quanto del potere più retrivo e rovinoso si basa sul fatto che tre quarti dell’umanità è costretto ad elemosinare?
E quanto sul fatto che noi stessi abbiamo continuamente bisogni da soddisfare? Auto nuove, nuove tecnologie, vacanze senz’anima: quanto siamo indipendenti, noi ricchi?
Oppure, quanto siamo schiavi senza accorgercene?
Nonostante ogni ostacolo e fiduciose in ciò che hanno già visto realizzarsi, suor Lettebrahm e le altre donne di Segheneiti, hanno nuovi progetti: differenziare la produzione, in modo da allargare il loro piccolo mercato locale; trovare uno sbocco lavorativo per le ragazze sordomute che hanno conquistato il diploma di tessitura, ma hanno maggiori difficoltà ad inserirsi e soprattutto riuscire a scavare nuovi pozzi per riportare l’agricoltura nei villaggi, dove la terra è tradizionalmente distribuita a tutti dal capo villaggio proporzionalmente al numero di componenti della famiglia e ogni sette anni assegnata a sorteggio, in modo che si faccia il giro di tutti i terreni e non si creino ingiustizie sociali.
Suor Lettebrahm, fa inoltre notare che in Eritrea sarebbe interessante potenziare l’uso dell’energia solare, come già ha fatto un volontario italiano che vive in un villaggio vicino e ha portato questa tecnologia risolvendo innumerevoli problemi.
Silenziosi e lenti, ma coraggiosi come la crescita degli alberi che si stanno ripiantando e che attendono speranzosi la pioggia per poter tornare ad essere una foresta, gli eritrei, con mezzi minimi e con grande dignità costruiscono la loro vita giorno dopo giorno, sperando in un futuro di pace, di lavoro e di rispetto: come tutti.
Pensando ai loro giorni, a queste donne che tessono, con gesti antichi quanto l’umanità, la trama e l’ordito d’un mondo che si spera più giusto, forse potremo ritrovare forza e fiducia anche noi, nel nostro impegno quotidiano e forse ci sarà più facile capire cos’è l’essenziale. E che l’essenziale rende liberi.
Chi volesse conoscere meglio l’Eritrea e i progetti dell’associazione “Dodiciceste”, può fare riferimento al sito http://www.dodiceste.org.