di Sara Caron, Piam onlus.
Agli angoli delle strade molte donne, prevalentemente straniere, cercano guadagno vendendo sesso agli automobilisti di passaggio. È uno scenario consueto che ancora scatena sdegno e polemiche. Spesso, i corpi di queste donne sono messi in mostra, come merce ammiccante e ben confezionata, per attrarre gli sguardi e invogliare all’acquisto. Ma, nonostante l’abitudine alle gonne corte delle veline, alle scollature generose delle giornaliste televisive, alla biancheria intima sfoggiata nelle pubblicità, cresce il fastidio tra le persone comuni, come se la troppa prossimità fosse pericolosa e compromettesse l’integrità di chi guarda e passa. La gente si convince di vivere in un contesto degradato e poco educativo per i figli.
Quale ragionamento guida la strategia di multare in prima persona donne spesso trafficate, sfruttate e clandestine? Chi multa una donna sulla strada non si preoccupa di ottenere una parte del guadagno piuttosto che delle condizioni della donna?
La condizione delle prostitute è ignorata sia quando le si considera immorali per comportamenti, atteggiamenti e aspetto, sia quando, per questi motivi, si arriva a preferirle chiuse in qualche appartamento. Esiste infatti, anche la realtà della prostituzione indoor e nel 2006 un blitz delle forze dell’ordine ha scoperto ben 8 appartamenti, solo in Asti, dove vivevano recluse ragazze tailandesi senza documenti.
La prostituzione al chiuso, infatti, è più pericolosa per le donne poiché è difficilmente avvicinabile dagli operatori del settore, ma non è immune, per ciò che se ne sa, da fenomeni di tratta.
Mentre ad Asti, in agosto, si discuteva della moralità pubblica, a Bologna si parlava di una proposta sperimentale più al passo con i tempi, che tenta di porre rimedio parziale al disturbo per i cittadini senza ignorare il racket della prostituzione.
Sul modello di Venezia, valutato il migliore attraverso una ricerca del Forum italiano per la sicurezza urbana, che lo ha paragonato alle politiche in materia esercitate ad Amsterdam e Stoccolma, Bologna rifletteva sullo zoning: la possibilità da parte dell’amministrazione comunale di definire determinate aree cittadine, non fisse, nelle quali fosse possibile esercitare la prostituzione.
Tale modello a Venezia ha contribuito al controllo più stretto del fenomeno da parte delle forze dell’ordine e dei servizi sociali e a spostare la prostituzione da alcune strade che ne erano teatro abituale, senza adottare politiche repressive o atte a spaventare prostitute e clienti.
L’assessore alle Politiche sociali del Comune di Venezia, Delia Murer, ha dichiarato in occasione della presentazione dello studio condotto dal Forum (maggio 2007): “Di solito si parte da una concezione sbagliata, cioè che per eliminare la prostituzione bisogna renderla illegale. È evidente però che negare non significa eliminare, ma spesso rendere soltanto invisibile e difficilmente governabile un problema. Noi invece abbiamo le vittime della tratta come interlocutrici principali, abbiamo dato vita a un lavoro pionieristico di dialogo costante. Pensiamo che vadano governati i conflitti, perché i divieti non sappiamo dove potrebbero portare”.
LA REALTA’ DELL’ASTIGIANO
Ad Asti, dal 2000, un’associazione si occupa del reinserimento sociale delle donne vittime di tratta attraverso il contributo necessario delle mediatrici culturali. Il PIAM Onlus gestisce una comunità di accoglienza, uno sportello informativo, svolge Unità di Strada, fa prevenzione sanitaria e si rapporta quotidianamente con i Servizi Sociali del Comune, la Questura, la Prefettura, il Centro per l’Impiego e tutti gli enti del privato sociale che in Piemonte si occupano di tratta.
Nel corso del 2006 l’associazione ha svolto una ricerca commissionata dalla Regione attraverso un progetto interregionale, finanziato con fondi europei, atta a mappare il fenomeno in Piemonte e individuare le buone prassi utilizzate nei percorsi di fuoriuscita dalla prostituzione (per ragioni di spazio, AltritAsti omette alcune tabelle di riepilogo, che restano a vostra disposizione su richiesta per riassumere i dati emersi. Potete richiederle a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.).
LE LEGGI ITALIANE IN MATERIA DI PROSTITUZIONE E TRATTA
Per quanto datata, la Legge Merlin, tuttora in vigore, si proponeva linee di azione ancora utilizzabili nel contesto attuale:
non sanzionare l’esercizio in forma autonoma e volontaria dell’attività di prostituzione,
proteggere chi la esercita con coercizione o in condizioni di sfruttamento,
garantire che i comportamenti non siano invasivi o offensivi,
garantire il rispetto e la sicurezza delle persone,
colpire le organizzazioni criminali o i singoli sfruttatori,
tutelare i minori,
favorire percorsi di fuoriuscita e di assistenza,
promuovere competenze nei servizi di polizia.
Tuttavia, è necessario tenere presenti le trasformazioni intercorse nel mercato della prostituzione. In primo luogo le donne che esercitano la prostituzione ad oggi sono in gran parte straniere.
Una recente relazione dell’Osservatorio sulla prostituzione del Ministero dell’Interno afferma con forza che:
“Tra sfruttamento della prostituzione, tratta e politiche migratorie intercorre una vicendevole implicazione dal momento che una disciplina dell’immigrazione eccessivamente restrittiva rischia di favorire la crescita dell’area della clandestinità in cui si sviluppano le più pericolose forme di sfruttamento, legate soprattutto alla tratta.”
In questa direzione si muove l’Art.18 del t.u. 286/1998 che concede il permesso din soggiorno per motivi di protezione sociale alle donne vittime di tratta ai fini di sfruttamento sessuale. Sia il Rapporto del 2007 sulla tratta, redatto dall’USA Department of State, sia la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla tratta hanno riconosciuto l’importanza di questo istituto non solo per la repressione delle reti criminali che controllano il trafficking, ma soprattutto per la tutela delle vittime attraverso la cooperazione con le associazioni impegnate in questo campo.
La Risoluzione del Parlamento europeo sulle ‘strategie di prevenzione della tratta di donne e bambini, vulnerabili allo sfruttamento sessuale, inoltre, si richiama infatti espressamente l’importanza che l’istituto italiano (come il corrispondente belga) ha svolto ai fini della tutela delle vittime di tratta e allo scopo di combattere questa forma di neo schiavismo. Ma, soprattutto, il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale ha rappresentato il paradigma cui si è ispirata la Direttiva 2004/81/Ce sul “titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime di tratta di esseri umani o coinvolti in un’azione di favoreggiamento dell’immigrazione illegale, che cooperino con le autorità competenti”, che ha sancito l’obbligo, in capo agli Stati membri, di introdurre nei rispettivi ordinamenti un istituto del tutto analogo.
Tuttavia, nonostante i riconoscimenti internazionali e il tentativo di esportare il modello, non tutte le questure applicano l’art.18 nello stesso modo, privilegiando spesso le denunce ai percorsi di reinserimento sociale.
Per rimediare a questa logica, il Ministro dell’Interno il 28 maggio 2007 ha emanato una Circolare che ha indicato ai Questori i criteri di valutazione per il rilascio del permesso di soggiorno per protezione sociale, giudicando prioritaria la presa in carico delle vittime sulla loro disponibilità a denunciare gli autori dello sfruttamento. I primi dati concernenti i rilasci di permesso successivi alla Direttiva citata indicano un positivo incremento sul rilascio dei permessi, infatti, dal 1° gennaio al 31 maggio 2007 sono stati rilasciati 96 permessi, mentre nel periodo 1° giugno -31 agosto 2007, ne sono stati rilasciati 147.
STORIE DI MIGRAZIONE
La libera circolazione delle merci in occidente si contrappone a quella dei corpi. Una persona che voglia venire in Italia per lavoro non è libera di trasferirsi se non dimostra di avere già un contratto di lavoro. Così molti stranieri si appoggiano alle reti criminali che gestiscono il trafficking per venire in Italia, viaggiano con mezzi di fortuna, spesso pericolosi e inaffidabili, si indebitano e devono affidarsi alle stesse società criminali per trovare il lavoro che permetterà di ripagare il viaggio. Molte donne finiscono sulla strada e altre, insieme a uomini e bambini, si dedicano all’accattonaggio, al lavoro nero, sfruttati e sottopagati.
Le migranti che conoscono già alla partenza il proprio destino in Italia sono, comunque, molte. La difficoltà a sopravvivere nella propria realtà d’origine le prepara al destino che spesso si scelgono.
I racconti delle amiche che sminuiscono l’emarginazione vissuta nel paese d’arrivo a vantaggio della facilità di fare soldi, la disperazione di genitori, fratelli e figli, i sogni di avere una casa ed un futuro meno duro, spingono queste ragazze a lanciarsi nel vuoto, verso qualcosa che non conoscono appieno ma sembra loro diverso dalla realtà quotidiana.
Uscite dalla prostituzione, attraverso percorsi che prevedono la denuncia e/o la presa in carico di associazioni, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, le donne si ritrovano a confrontarsi con il mercato del lavoro.
Gli stipendi deludenti, l’abnegazione richiesta e la precarietà delle occasioni di lavoro non possono che suggerire che la strada permette guadagni più facili e minore sottomissione. Forse è un atto di orgoglio ritornare sulla strada o continuare ad avere clienti-amici, piuttosto che adeguarsi ad essere trattate come fondi di magazzino o stock fallimentari.
Le donne vittime di tratta sono, infatti, spesso poco qualificate e istruite, la loro età supera quella dell’apprendistato, non guidano, non conoscono in modo sufficiente la lingua e tutto questo le rende difficilmente collocabili. Sono quindi inserite in progetti di accompagnamento al lavoro attraverso i quali, alle ditte che accolgono stage e tirocini, vengono elargite agevolazioni per facilitare le assunzioni. Nell’incontro con l’azienda, anche per questi progetti, le donne sono merce da “piazzare”. Sono merce svalutata, in saldo, a causa dei pregiudizi della gente e della crisi del mercato del lavoro.
Cosa offriamo, quindi, di meglio a queste donne? Siamo sicuri di porgere loro una possibilità di emancipazione, qualcosa per cui essere più fiere di loro stesse? Qualcosa che le renda meno simili ad una merce?
Nonostante la buona fede dei progetti, delle associazioni che si occupano di tratta e dei singoli operatori e educatori preposti all’accompagnamento e al tutoraggio durante la fase dell’accoglienza e dell’accompagnamento al lavoro, le condizioni di arrivo in Italia delle donne non permettono di integrarsi, di allevare i figli da sole, di avere uno stipendio sufficiente a vivere senza appoggiarsi ad enti, se non a costo di grossi sacrifici e umiliazioni.
Alla luce di tutto questo, il PIAM Onlus di Asti crede che sia giusto riaprire il dibattito su queste questioni, affrontando le difficoltà del presente e conoscendo le soluzioni trovate in altri contesti urbani, affinché l’angolo visuale del comune cittadino, preoccupato per la degradazione del proprio quartiere, diventi maggiormente consapevole delle storie delle donne e siano studiati dall’amministrazione interventi che ne tengano conto.