di Graziano Graziani.
Il teatro resta il luogo dell’utopia. Per questo, mentre viviamo un’aggressione al sistema di sovvenzionamento pubblico alla cultura e una marginalizzazione del teatro, allo stesso tempo, fioriscono modi nuovi di fare tatro ribelle: a Madrid, ad esempio, una delle esperienze più significative di questa stagione, racconta in questa conversazione uno degli attori-giocolieri più noti del mondo, Leo Bassi, «è stata la trasformazione, da parte di un gruppo di argentini, di un appartamento in luogo alternativo per il teatro» ...
Un luogo abusivo, senza alcuna licenza, nel quale si offrono storie di vita quotidiana, storie intense, a gruppi di cinquanta spettatori seduti un po’ dove capita. Oggi «il lavoro dei teatranti è molto vicino a quello di gruppi di hacker», che non vogliono piegarsi al dominio del profitto e delle banche.
“Il buffone più pericoloso di Spagna”: così anni fa è stato definito Leo Bassi. Ma forse oggi lo è dell’intera Europa. I poteri forti sono da sempre il bersaglio preferito dei suoi spettacoli corrosivi e “scorretti”. Per questo è naturale che nel suo ultimo lavoro Bassi se la prenda con la deriva economicista che sta spazzando via il pensiero umanista. Ma “Utopia” – che quest’anno ha fatto più volte tappa in Italia – è anche un inno al teatro e al suo potere di rigenerazione della società. E Leo Bassi ci ha raccontato perché.
In “Utopia” parli del rapporto tra teatro e utopia. Di che rapporto si tratta?
Il teatro è cambiato radicalmente negli ultimi cento anni. Per certi versi ha perso molto potere, ma ha anche acquisito nuove prerogative. Quello che ha perso è la sua centralità: prima il teatro era il luogo deputato alla “narrazione” di una società, non c’erano né cinema né televisione. Oggi il rapporto si è ribaltato, per questo assistiamo a spettacoli in cui, ad esempio, si porta a teatro l’attore televisivo. Il senso di una simile operazione è che il “personaggio famoso” è a pochi passi da te, lo vedi “dal vivo”: questo crea un evento. Oggi una grande fetta di pubblico va a teatro solo per vedere operazioni simili, per partecipare all’evento. Ma è una cosa da stupidi. Perché? Perché il teatro deve essere il luogo dell’utopia. Questo era il senso della sua centralità come luogo in cui una società di narra, si comprende e può così immaginarsi diversa, migliore.
La crisi economica sta accelerando l’aggressione al sistema di sovvenzionamento pubblico alla cultura, che si sta sgretolando. Questo marginalizza ancora di più il teatro ma, allo stesso tempo, si stanno sgretolando anche le abitudini del “teatro borghese”. Ad esempio il sistema degli abbonamenti, che va in crisi. Tutto ciò sta obbligando gli artisti a inventare nuovi modi di fare teatro. Faccio un esempio. In Spagna una delle esperienze più significative di questa stagione è stata la trasformazione, da parte di un gruppo di argentini, di un appartamento in luogo alternativo per il teatro. Un luogo totalmente abusivo, senza alcuna licenza, in cui si offrono storie di vita casalinga, storie intense, a gruppi di cinquanta spettatori seduti un po’ dove capita. Negli ultimi mesi a Madrid si è parlato molto più di questo teatro che di tutti gli altri luoghi della città.
Quando non ci sono più soldi chi rimane nella professione è pazzo? Visionario? Di certo chi continua non lo fa per un interesse economico.
Ma cos’è la crisi per Leo Bassi?
È la fine della classe media europea. Le grandi battaglie del XIX secolo e le successive battaglie socialiste, le cui radici affondano nella Rivoluzione Francese e nell’Illuminismo, avevano rappresentato il tentativo di creare una classe intermedia tra aristocrazia e Chiesa da una parte e contadini e servi dall’altra. Questa classe media era istruita, portatrice di un’idea di cultura, dell’orgoglio di non essere e di non voler essere schiava delle classi più ricche. Oggi ci troviamo di fronte alla lotta tra la classe media e la classe più potente, che vuole trasformare di nuovo la prima in servitù. In crisi, oggi, c’è proprio quel mondo intermedio dove nasce l’arte, dove nasce lo spirito rivoluzionario e di libertà. Tutta la logica del sostegno pubblico a favore delle arti, in questi ultimi decenni, può essere vista come uno sforzo disperato di conservare questo spazio intermedio, prendendo soldi ai ricchi. Oggi questo sforzo appare agli occhi di molti “ingiustificato”. È una grande sconfitta della sinistra, che di fondo era “classe media”. L’idea che la sinistra rappresentasse gli operai era un’illusione: casomai rappresentava gli operai istruiti che tentavano di emanciparsi per aprire nuovi spazi di democrazia. Ma tutto questo ormai non esiste più.
Come si traduce tutto questo in campo artistico?
Per me il paradigma sono i musical di Broadway. Lì, nel tempio del teatro americano, le grandi compagnie di produzione si sono impossessate di tutti i teatri: il risultato è che produzioni come “La Bella e la Bestia” o “Il Re Leone” vengono viste come grandi opere artistiche, quando qualsiasi persona vagamente istruita – della classe media, appunto – è in grado di rendersi conto che si tratta di storie per bambini, di cartoni animati trasferiti sul palcoscenico. Certo, sono operazioni “popolari” che hanno un loro pubblico. Ma qual è il criterio che assegna a prodotti simili l’etichetta di operazioni “culturali”? La classe media un criterio di discernimento ce l’aveva. Ma questa classe ormai non ha più potere e anche la sua cultura non è più rispettata.
Quello che resta è questa nuova narrazione dove i “classici” sono i classici Disney, gestiti dai banchieri della Disney, i quali seguono modelli di produzione molto cinici: creano prodotti che vengono visti e godute senza alcun criterio. Il pubblico di questi spettacoli è un pubblico senza orgoglio, asservito, un pubblico di pecore. Questa gente è la negazione di tutte le lotte che negli ultimi tre secoli avevano tentato di affermare una classe libera, indipendente, critica e intelligente. Una classe che aveva messo la propria narrazione nella Storia, affinché la Storia fosse letta come un percorso verso l’eliminazione dei privilegi dei ceti aristocratici e religiosi, un percorso verso l’uguaglianza. Oggi i banchieri sono riusciti a far cambiare questa idea, a cancellare quella narrazione e ad affermare che l’orizzonte culturale coincide con lo stile di vita di chi detiene il potere. La crisi è quindi una materializzazione della fine della classe media, dei suoi divertimenti, del suo mondo intellettuale. Presto non ci saranno persone in grado di stabilire cosa sia la cultura.
E allora qual è oggi il compito dell’artista?
Per me oggi il mio lavoro, come quello di tanta altra gente, serve a contrastare questa deriva. A provarci. Preso in questa accezione, il lavoro dei teatranti è molto vicino ad esempio a quello di gruppi di hacker come Anonymous, informatici che non vogliono piegarsi allo strapotere dei banchieri. Abbiamo possibilità di vincere? Se l’unità di misura temporale sono i secoli, sono molto ottimista. Ma parlando del prossimo futuro, vedo le cose sempre più difficili.
Fonte: Quaderni del Teatro di Roma (titolo origianario Leo Bassi, un clown contro la crisi).
Tratto da: http://comune-info.net
Leo Bassi, attore e giocoliere, è nato negli Stati uniti da una famiglia di circensi di origine italiana. Ha vissuto in diversi paesi, attualmente risiede in Spagna. I suoi spettacoli, in modo molto irriverente e creativo, spaziano da sempre intorno ai temi sociali, politici e ambientalisti.
Graziano Graziani, caporedattore del mensile Quaderni del Teatro di Roma, collabora con diverse testate. Ha pubblicato testi sul teatro e di prosa teatralizzata e ha lavorato per alcuni anni nella redazione di Carta. Cura un blog intitolato Stati d’Eccezione.