di Gabriella Sanlorenzo.
Prendo lo spunto dalla bella lettera delle comunarde di Urupia (Comune pugliese, produttrice di olio, vino e altri prodotti agricoli) pubblicata su Altritasti della scorsa settimana, per toccare brevemente un argomento che mi sta a cuore: il sessismo nel linguaggio. Si tratta di materia delicata e per addetti ai lavori, ma con diverse ripercussioni sulla nostra vita quotidiana ...
Le comunarde nel loro linguaggio quotidiano hanno deciso di fare riferimento a loro stesse sempre al femminile, pur vivendo nella Comune donne e uomini, ma nella lettera dicono di rivolgersi anche ai componenti dei Gruppi d’acquisto che da loro si riforniscono usando, per loro comodità, il femminile “sperando che i maschi non si sentano troppo privati della loro identità”.
Questa frase suona piuttosto ironica, ma se un uomo partecipa ad un’attività frequentata prevalentemente da donne (ad esempio un corso di Pilates) e perciò viene incluso in osservazioni, apprezzamenti o frasi tutte volte al femminile (tipo: “Brave ragazze!”), ne nasce realmente una situazione che provoca risatine da parte di tutte.
Lo stesso non succede normalmente nella situazione ‘rovesciata’ (una donna in mezzo a soli uomini non si stupirà di essere accomunata al genere maschile e se si mettesse a ridere sarebbe probabilmente ritenuta sciocca).
Questo problema della nostra lingua, che ci portiamo dietro da sempre, è stato affrontato in modo molto serio anche dal mondo politico una trentina d’anni fa, quando la femminista Alma Sabatini fu incaricata dal governo italiano di svolgere uno studio sul sessismo nel linguaggio. Ne fu il risultato “Il sessismo nella lingua italiana”, una pubblicazione ancora di grande attualità.
Sabatini nel 1987 scriveva: “L’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione nel pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta. La parola è una materializzazione, un’azione vera e propria.[…] Ciò che conta non è il puro e semplice uso della parola diversa, bensì un cambiamento sostanziale dell’atteggiamento nei confronti della donna, un senso che traspaia attraverso la scelta linguistica”.
E quindi seguiva un lungo elenco di raccomandazioni sull’uso di certe locuzioni “da evitare” con accanto forme proposte in alternativa.
Secondo Rebeca Moreno Balaguer (2012) “un linguaggio sessista è quello che nasconde, sottovaluta, subordina e/o esclude le donne”. Si pensi ai “duali apparenti”: parole che assumono significati completamente diversi a seconda del genere cui si riferiscono:
un cortigiano: un uomo che vive a corte, una cortigiana: una prostituta;
un professionista: un uomo che fa bene il suo mestiere, una professionista: una prostituta;
un uomo di strada: un uomo duro, una donna di strada: una prostituta…
non riporto gli altri numerosi esempi, ma è chiaro che in questo uso della lingua c’è qualcosa che non va e che si dovrebbe serenamente affrontare e, già che ci siamo, risolvere..
Un altro aspetto importante che annota Moreno Balaguer è che spesso, trattando di donne, si evidenziano in loro le qualità che si potrebbero definire “femminili” anche se non pertinenti con il contesto. Parlando di donne in politica, per esempio, spesso si fa riferimento a caratteristiche quali la bellezza e il modo di vestire, cosa che si utilizza molto raramente per gli uomini.
L’ultimo argomento cui accennerò, ma che certo non esaurisce il discorso, è quello relativo a professioni, titoli, cariche e mestieri.
E’ evidente infatti che esistono vocaboli per definire lavori e professioni ritenute per tradizione femminili e che utilizziamo tranquillamente declinandoli secondo il genere corretto, (infermiera, maestra, educatrice, professoressa ecc..) mentre ne esistono altri che non riescono ad entrare nel linguaggio comune. Ad esempio: magistrata, avvocata (preferito dalla Sabatini ed altri linguisti ad ‘avvocatessa’), ispettrice, prefetta, sindaca ecc.. Si tratta di termini che si riferiscono a ruoli tradizionalmente rivestiti da uomini in cui ormai si sono affermate, e non da ieri, anche numerose donne. Ogni proposta di cambiamento, dice la Sabatini, è però vissuta da alcuni come “un attentato alla libertà di parola”, ma questo non dovrebbe succedere, dato che si tratta di suggerimenti, di stimoli della “creatività individuale a trovare altre soluzioni, con lo scopo non di ‘limitare’ e ‘prescrivere’ il proprio modo di parlare e di scrivere, ma al contrario di liberarsi dagli schemi che la lingua stessa e l’abitudine ci ‘impongono’ ”.
La proposta di questo nuovo modo di esprimersi ha alla base “una ideologia di una parità non solo di diritti, ma anche di valori tra i due sessi”, […] o per meglio dire “un’ottica diversa, che partendo dalle donne, mette in luce i lati lasciati finora in ombra dalla tradizionale ottica patriarcale”.
Per quanto mi è dato sapere, la strada da fare, a 25 anni dalla pubblicazione di queste profondissime osservazioni, è ancora tanta e spetta al coraggio ed alla responsabilità di ciascuna di noi, provare a sfondare quella che sembra una enorme, spessa barriera di ostili perplessità, provando a far comprendere che “per ‘parità’ non si intende ‘adeguamento’ alla norma ‘uomo’, bensì reale possibilità di pieno sviluppo e realizzazione per tutti gli esseri umani nelle loro diversità”.
Per integrare l’argomento trattato, si raccomanda la lettura dei due seguenti testi presenti, il primo solo parzialmente, on-line:
Sabatini A. (1987), Il sessismo nella lingua italiana, Pres. Cons. dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, http://www.funzionepubblica.gov.it/media/277361/linguaggio_non_sessista.pdf;
Moreno Balaguer R. (2012), Manual de lenguaje no sexista, Acsur Las Segovias, http://www.acsur.org/Manual-de-lenguaje-no-sexista.