Le tre economie del pane



«Nelle panetterie autogestite da cooperative si decidono in modo democratico tutte le questioni del progetto, che non è solo fare del pane, ma “fare del buon pane” un’attività di trasformazione della società. Nessun aspetto è neutrale. I fornai della cooperativa comprano i cereali dai contadini bio più vicini, perché questi svolgendo i loro compiti agricoli si prendono cura dell’ambiente, offrono un grano sano e custodiscono il paesaggio ...

Lavorano la farina manualmente affinché sia più areata e di migliore cottura, ma anche per offrire un maggior numero di posti di lavoro. Cuociono al forno l’impasto con della legna che tutti loro raccolgono nei monti della comunità, pulendo in tal modo il bosco e facendo opera di prevenzione degli incendi. Scambiano o vendono il loro pane naturale nei ristoranti della zona, in cooperative di consumo e in piccoli negozi del loro territorio. Ciò significa che con un lavoro nel quale utilizzano e pongono molto amore, promuovono un tessuto sociale locale, che rende il territorio e le persone che lo abitano uno spazio vivo. Come il loro pane». Di certo, non esiste solo l’economia capitalista e quella industriale.

di Gustavo Duch.


Il vecchio professore sapeva che era uno degli ultimi anni in cui poteva insegnare o magari, a seguito dei tagli, che poteva essere proprio l’ultimo anno. Come fosse un karma, ripeté la lezione che il primo giorno era solito impartire al gruppo di nuovi alunni del primo anno di Scienze economiche.

«Ragazzi e ragazze, voi ascolterete e imparerete molti concetti economici, rapporti e teorie tra queste quattro pareti, ma sapete che tipo di economia imparerete? Sapete quale economia vorrete difendere o praticare? Perché, come esistono tre tipi di pane che possiamo introdurre nella nostra bocca, così esistono tre tipi di economia.

In primo luogo, esiste una economia molto negativa, indigesta che più che dare da mangiare fa solo passare la fame. Mi riferisco a quelle attività economiche che con i cereali che si raccoglieranno in qualunque parte del mondo, non producono pane o altri alimenti, ma che semplicemente li utilizzano per realizzare con essi delle speculazioni in quello che viene chiamato “il mercato dei derivati o dei futures”, un terreno di gioco, a Chicago o a New York, dove possono solo accedere entità finanziarie, banchieri e operatori di Borsa, i “brokers”. Si tratta di una economia che attribuisce un valore a delle cose intangibili, che non ha rapporti con la realtà, però che, senza lievito, fa salire follemente il prezzo del grano – del pane – in tutti i luoghi, causando molti danni a migliaia di persone che non sono più in grado di comprarlo. Con la stessa procedura, questo tipo di economia sforna una crisi alimentare, una bolla del mercato immobiliare, o fa gonfiare i debiti degli Stati. Si tratta dell’economia capitalista, che può solo aspirare a dei profitti in aumento, ben sapendo, ma ciò non le ispira alcuna preoccupazione, che genera tutto intorno a sé numerose e molto negative ripercussioni.

La seconda è una economia neutrale, analoga a quella svolta dalle panetterie tutte uguali, in franchising, presenti in molti quartieri della città, che si limitano, in un processo industriale e automatizzato, a raccogliere gli ammassi di pane congelato che ricevono ogni giorno in una scatola di cartone. Lo infornano senza molte cure e cercano di venderne quanto più possono. Anche in questa economia l’unico obiettivo è il profitto, quale che sia il tipo di attività svolta. Alcune considerazioni si possono formulare lungo tutto il processo, (limiti igienici, condizioni di lavoro, ecc.), però penso di poter dire che in sostanza dovrebbero garantire di operare all’interno delle condizioni di legalità. E’ una economia che nella bocca non sa di niente, che nella pancia non si sente, ma che però in una notte si è rammollita ed è subito pronta per essere espulsa.

Da ultimo, rimane la panetteria autogestita da una cooperativa formata da varie persone, che decidono in modo democratico tutte le questioni relative al progetto, che non è solo fare del buon pane, ma “fare del buon pane” una attività diretta alla trasformazione della società in cui vivono. Nessun aspetto è neutrale. Si comprano i cereali dalle e dagli agricoltori ecologici più vicini, perché questi svolgendo i loro compiti agricoli si prendono cura dell’ambiente, offrono un grano sano e custodiscono il paesaggio; lavorano la farina manualmente affinché essa sia più areata e di migliore  cottura,  però anche per offrire un maggior numero di posti di lavoro o maggiori mezzi di sostentamento; cuociono al forno l’impasto con della legna che tutti loro raccolgono nei monti della comunità, pulendo in tal modo il bosco e facendo opera di prevenzione degli incendi; scambiano o vendono il loro pane ecologico nei ristoranti della zona, in cooperative di consumo e in piccoli negozi del loro territorio. Ciò significa che con un lavoro in cui utilizzano e pongono molto amore, promuovono un tessuto economico e sociale locale, che rende il territorio e la gente che lo abitano uno spazio vivo – come il loro pane – più sostenibile e riproducibile. E una economia sociale e solidale che non si può esprimere in chili di pane.

La prima economia – spiega il professore – dovrebbe essere proibita o sradicata, però nè la classe politica rispetta più dei valori, nè la società ha raggiunto una presa di coscienza sufficiente. La seconda, ai giorni nostri, non serve più a nulla, e dobbiamo abbandonarla volontariamente perché in questa fase di crisi di civiltà, è urgente mettere in pratica tutte quelle piccole economie di cooperazione, reali, piene di sapori, consistenti e artigianali, che rivendicando i vecchi e buoni valori di sempre (onestà, solidarietà, allegria, …) sanno fare del pane che portiamo alla nostra bocca un alimento capace di trasformazione».

Attento alle proposte che provengono dai movimenti sociali, il professore legge a voce alta una definizione più formalizzata: «L’economia sociale e solidale, di fronte alla logica del capitale, alla mercificazione crescente delle sfere pubbliche e private e alla ricerca del massimo profitto, persegue la costruzione di relazioni di produzione, distribuzione, consumo e finanziamento basate sulla giustizia, la cooperazione, la reciprocità e il mutuo aiuto».

Dopo aver dato uno scopo e un fine alla sua classe, di fronte ad un pasto da catering, servito nella sala mensa universitaria, si accarezza la testa canuta, parlando tra se e se. Tanti anni di insegnamento dell’economia e questa era l’unica trasgressione al sistema che aveva il coraggio di fare, dissimulando posizioni alternative con odiose metafore da panettiere. Un atto mediocre, proprio come il pane industriale.


Fonte: El Periódico de Catalunya e gustavoduch.wordpress.com (traduzione a.c per http://comune-info.net)

*Scrittore spagnolo, laureato in veterinaria, si occupa di alimentazione globale e decrescita.

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