A Messina come nel resto d'Italia, dal pericolo generico al rischio concreto

di Vanda Bonardo, Presidente Legambiente Piemonte.
ImageA Messina, come in gran parte del Sud Italia, le fiumare sono una consuetudine. Si tratta di valli strette e profonde soggette a piogge intense e di breve durata. Su questi terreni, una volta, non vi costruiva nessuno, tanto che le piogge intense si incanalavano nell'alveo scorrendo giù per i versanti liberi e dopo mezza giornata o poco più, tutto tornava come prima, lasciando ben poche tracce.
Ogg,i con licenze edilizie o con abusi, si è costruito ovunque e ciò che prima era solo “pericoloso” per la probabilità che accadesse un evento di una certa intensità, oggi è diventato altamente “rischioso”, per il semplice fatto che la pericolosità si moltiplica per il valore di quanto  costruito e abitato oltre che per la sua vulnerabilità.

In Italia tutte le aree a rischio sono state delimitate con il decreto 180/98, il famoso “Decreto Sarno”. Tuttavia, Piani Regolatori sempre troppo generosi e ora ancor più spudorati, in virtù del tremendo “Piano casa”, veicolano sul territorio enormi quantità di cemento. L'enorme quantità di case e capannoni, insieme alla fittissima rete di strade hanno completamente modificato e squilibrato l'assetto dei versanti. Dall'uso di queste zone dipende la concentrazione che porta alla piena o alla frana più a valle.
L’urbanizzazione subita lungo i corsi d’acqua e sulle colline negli ultimi 50 anni appare come la più pesante eredità del recente passato. Nonostante questa verità, ormai condivisa e accettata, non si nota una concreta inversione di tendenza capace di rendere il territorio più sicuro dalle frane e dalle alluvioni.

Non si risolve un bel nulla con la promessa di nuove casette subito pronte e ben arredate, come dichiara Berlusconi, se prima non si pianifica l'uso del territorio. Se, come oramai sufficientemente dimostrato, il problema è l’occupazione urbanistica di tutte quelle aree dove il fiume o il torrente in caso di piena può “allargarsi”, le opere di messa in sicurezza non possono sempre trasformarsi in alibi per continuare a costruire sulle sponde dei fiumi o nelle zone franose. Eppure si insiste nel mettere in sicurezza aree a rischio, per poi subito dopo renderle edificabili.
Sono ancora un’eccezione gli interventi concreti di delocalizzazione delle strutture a rischio, mentre permangono costanti e ben radicate le opposizioni anche da parte delle istituzioni locali alla realizzazione delle aree di laminazione.
Ne è un esempio in Piemonte il caso degli invasi controllati, da tempo progettati nella zona di Frassineto Po, sebbene per quest’area sia indiscutibilmente dimostrata la loro utilità.

Molte situazioni problematiche troverebbero facile governo se si definissero le aree di laminazione e poi se ne vincolasse realmente l’uso del suolo ai fini della difesa. Infatti, l’acqua laminata in golena o in aree di espansione non sta ferma, ma scorre con una velocità più ridotta e il suo effetto di laminazione è molto diverso da quello di semplice stoccaggio in casse di espansione.
Un aspetto dei più perversi del dissesto è dato dalle frane come quella accaduta a Messina. Le frane di colata o di altro tipo sono  da studiare una ad una per le peculiarità che le contraddistinguono . La realtà fisica  e pedologica di ogni frana è a sé stante, tuttavia c'è un rimedio pressoché universale: è quello del ripristino della copertura vegetale (le montagne di Sarno sono bruciate ben  6 volte negli anni precedenti il dissesto del '98).
La ricostruzione della copertura vegetale quasi sempre avviene in maniera spontanea , basta lasciare in pace il terreno, semmai accompagnandolo nel suo percorso di rinaturalizzazione con tecniche adeguate di riforestazione. In virtù dell'abbandono, la copertura forestale dell'Italia è aumentata del 40% in 30 anni, consentendo così di contrastare e compensare almeno in parte  il pazzesco disastro fatto dall'urbanizzazione.

La necessità dell'uso del suolo come difesa (imporre, incentivare, vietare in funzione della difesa) trae consensi finalmente ad ampio raggio, non solo nelle affermazioni di Napolitano che giustamente dice basta alle grandi opere faraoniche, ma anche tra  addetti ai lavori, come Bertolaso, fino a ieri piuttosto dubbiosi sulle posizioni che alcuni di noi da sempre avanzano.
Il Piemonte, già con il Piano Territoriale Operativo del Po, voluto nel 1993 dall'allora Assessore ai Parchi Mercedes Bresso, formulò delle ipotesi all'avanguardia e oggi potrebbe davvero essere un esempio trainante per tutta la nazione, se solo decidesse di riprendere queste opzioni  con un nuovo coraggio politico e culturale.
Oggi per di più ci sono ci sono studi ad alta specializzazione: idrologico-meteorologico, pedologico e modellistico. Certo è che studi così approfonditi e raffinati non possono ammuffire nel fondo dei cassetti o negli archivi dello Stato come è accaduto per lo studio di caso condotto da Cannata, Filpa, Zumaglini e Quagliolo in seguito all'incarico della Procura di Ivrea in occasione dell'alluvione del 2000. A chi non avesse avuto  modo di leggerne gli esiti, dico che questo lavoro di grande rilievo scientifico ha dimostrato banalmente che a parità di pioggia, in conseguenza dell'antropizzazione  del territorio, la portata del fiume Dora Baltea a Ivrea è aumentata di più del 10% nel 2000 rispetto al 1978 e su una portata di 2800 metri cubi al secondo significa 280 metri cubi in più per ogni secondo.

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