di Filippo Bruni.
A imbrattare non solo i monumenti siamo ogni giorno tutti noi. Con una differenza sostanziale: la vernice con la quale avveleniamo la terra non è lavabile. Lettera di uno studente universitario.
Abbiamo sentito nelle ultime settimane sollevarsi canti di indignazione in occasione delle vandalizzazioni messe in atto dall’associazione ambientalista Ultima Generazione. Vorrei qui prendere in analisi tali fatti a partire dalla ricezione che essi hanno avuto nell’opinione pubblica. La questione da cui partire è: che cos’è che genera sdegno nelle persone che assistono a tali imbrattamenti?...
Non escludo in prima battuta che a suscitare la rabbia di molti sia un malcelato perbenismo, secondo il quale il gesto eclatante è da condannare sempre e comunque, indipendentemente dalla gravità del fenomeno che esso denuncia. Parlo insomma dell’idea diffusa per cui le buone maniere, cascasse il mondo – e in questo caso l’espressione non sembra affatto iperbolica – vanno sempre ossequiosamente rispettate. Tuttavia sono convinto che alla base delle reazioni contrariate di molti ci sia qualcosa di più e che gli imbrattamenti in questione arrivino a toccare delle corde più profonde del nostro animo. Sono certo infatti che l’offesa all’opera d’arte si configuri nella visione comune come una offesa rivolta direttamente alla nostra umanità, che proprio nei monumenti, nei quadri, nelle statue, nelle fontane trova la sua rappresentazione più nobile. Davanti alla Barcaccia che si tinge di nero o alle mura di Palazzo Vecchio che si macchiano di arancione, sentiamo aprirsi dentro di noi uno squarcio doloroso, che ci fa gridare alla barbarie, che ci fa infuriare e inveire, anche in modo scomposto, nei confronti di quegli scellerati, che pur combattendo per idee buone decidono di accanirsi su qualcosa che davvero ai nostri occhi non merita di ricevere alcuna forma di violenza, l’arte. L’aggressione all’arte suscita in ciascuno un sentimento di sincera angoscia: l’arte infatti è sacra, e lo è perché in essa è riposto il senso più puro di noi.
L’arte però è anche rappresentazione. Rappresentazione di chi siamo, della versione migliore di noi, ma anche delle nostre storture. L’arte è il luogo in cui si può dare vita a messaggi che travalichino la ragione e che risveglino il sentimento. La centralità dell’opera d’arte nel codice di comunicazione di Ultima Generazione rivela perciò, a mio parere, la volontà di rivolgere un ultimo disperato richiamo alla parte più intima ed emotiva di noi. Sono convinto che proprio in questa prospettiva potremo trovare la chiave perché il gesto irriverente di Ultima Generazione si trasfiguri e manifesti il suo significato più autentico: le loro vernici diventano infatti a un nostro sguardo più attento la rappresentazione impietosa di un’umanità sanguinante, diventano esse stesse sangue che cola dai monumenti che più ci rappresentano, diventano di quei monumenti quasi lacrime: lacrime di una umanità ferita, lacrime di monito ad agire e a cambiare.
In queste proteste dunque è come se fosse messo in scena l’atto di violenza che la nostra umanità, quasi inconsapevolmente, ogni giorno si autoinfligge: gli attivisti diventano gli attori di uno scempio di cui l’uomo è vittima e artefice. Insomma a imbrattare la Barcaccia, quanto meno metaforicamente, siamo ogni giorno anche noi, con una differenza sostanziale però: la vernice con cui avveleniamo la terra, non è lavabile.
Si sente dire: “Il pianeta va senz’altro salvato, ma l’arte va sempre rispettata: non è utile violarla, ma studiarla e ripartire proprio da essa per scoprirci più umani”. E questo è senz’altro vero: ripartiamo dall’arte per sentirci più umani! Ma non nasce forse proprio da questa consapevolezza il gesto provocatorio e disperato degli attivisti?
Fino ad oggi il grido ad agire, il grido a salvarsi, e prima di tutto il grido a rispettare la natura, che in ultima analisi è la condizione di possibilità della vita umana, è rimasto inascoltato. Nei decenni il monito ambientalista è stato prima delegittimato, cercando di eroderne i fondamenti scientifici, e poi, quando inequivocabilmente tali fondamenti non potevano più essere negati, è stato incanalato in politiche palliative. Oggi quel grido, che per decenni ha tentato invano di parlare alle menti, dove si deve ormai rivolgere se non ai cuori? E cosa ci sta a cuore più dell’arte? Ciò vale a dire: cosa ci sta a cuore più di noi stessi? Parlare ai cuori, e dunque scuotere la parte emotiva di noi, rappresenta, almeno per gli attivisti, l’ultima strada possibile e se è vero che i grandi cambiamenti nascono sempre dai cuori per poi essere elaborati dalle menti, allora forse nel vederci umiliati dalle vernici del nostro auto-inquinamento proprio nella parte migliore di noi, magari sentiremo nascere una consapevolezza nuova.
Tratto da: https://comune-info.net/davanti-alla-barcaccia-e-a-palazzo-vecchio
(Offriamo questo punto di vista ai nostri lettori, particolarmente utile se analizzato assieme a questi spunti - diametralmente diversi - già pubblicati a gennaio, NdR).