di Franco Correggia.
Come ben sa chi si occupi anche solo superficialmente di biodiversità vegetale, negli ultimi decenni i terreni marginali sono diventati un importante ambiente-rifugio per innumerevoli specie nobili della nostra antica flora spontanea. Ripe erbose, sponde di strade campestri, bordi dei coltivi e scarpate soleggiate sono i luoghi dove oggi si accantonano, si concentrano e riescono a sopravvivere moltissime essenze erbacee divenute sempre più rare altrove, a causa delle trasformazioni ambientali prodotte dalla declinazione dell’agricoltura secondo gli algidi canoni della chimica e della meccanizzazione...
Con l’arrivo della primavera e della prima estate, questi siti appartati e un po’ dimenticati esplodono della festa sgargiante di forme e colori cui danno vita le fioriture accese e policrome di papaveri, fiordalisi, speronelle, specchi di Venere, vecce, coriandoli, camomille, millefogli, vilucchi, viole campestri, vetrioli, ive, camedri, mente, verbaschi, veroniche, ranuncoli e altre specie segetali e messicole un tempo coinquiline e commensali dei campi di frumento, orzo, segale e avena. Ma non solo: anche di un’ampia rosa di cariofillacee multicolori, linacee delicate, boraginacee polimorfe, campanulacee variopinte, liliacee eleganti, poacee filiformi e rare orchidee. Si tratta di un imponente campionario della varietà vivente delle nostre campagne, di grande bellezza estetica e di cruciale rilevanza ecologica.
Tra queste specie rientrano molte entità autoctone di pregio e svariate archeofite che conservano un importante significato di bioindicatori e di testimonianze fitostoriche. E il discorso non si esaurisce con la diversità vegetale: l’insieme di queste specie attrae e fornisce l’habitat di riferimento a una sterminata entomofauna specializzata (che include una vasta gamma di preziosi insetti impollinatori). Insomma, questi ambienti marginali colonizzati da una flora spontanea relittuale varia e articolata disegnano una successione di biotopi diversificati e complessi che rappresentano elementi centrali nel definire lo status bioecologico del territorio, le sue valenze estetico-paesaggistiche, le sue dinamiche ecosistemiche, la sua salute e la sua residua vitalità.
Da tempo però questi angoli periferici di campagna sono sotto attacco e quest’anno in particolare sono divenuti oggetto di un’aggressione violenta e mortifera senza precedenti, tanto pericolosa quanto insensata.
Proprio quando i flussi e le correnti della vita che si risveglia iniziano a comporre il carosello cangiante di colori, profumi e armonie della primavera, non pochi agricoltori professionisti, conduttori di fondi e coltivatori della domenica iniziano a spargere con necrofila sistematicità erbicidi e disseccanti che sterilizzano ogni espressione della stagione della rinascita. In un lampo, la multiforme polifonia vivente della primavera e il suo sciame vorticoso di manifestazioni creative vengono sostituiti dal silenzio mesto e cadaverico di un nuovo lugubre inverno chimico e rinsecchito, con scempio e strage di tutta la costellazione interconnessa di forme biologiche che stavano per riaffacciarsi alla vita piena.
Mai come quest’anno, le campagne astigiane sono state bombardate in molti punti, fin dall’inizio di aprile, da una funerea pioggia di diserbanti sistemici dagli effetti letali e desertificanti. Composti chimici di sintesi, xenobionti e ad alta fitotossicità, sono stati distribuiti con disinvoltura e leggerezza su una moltitudine di ripe erbose in fiore, margini prativi di carrarecce di campagna e pendii inerbiti. Ho persino osservato l’indecente applicazione di questi veleni (a cominciare dal micidiale e non selettivo glifosato) su estesi prati polifiti che il proprietario non intendeva più sfalciare. Assorbiti dalle foglie e traslocati per via floematica all’interno dei tessuti vegetali in piena ripresa metabolica, queste sostanze non biocompatibili hanno prontamente sterilizzato e annientato ogni specie della flora spontanea e ogni organismo che a questa era legato da rapporti simbiotici, portando morte, semplificazione e squallore laddove stava per erompere la complessità creatrice del ciclo della vita.
Tutto ciò è di una gravità estrema. In primo luogo è drammatico in termini ecosistemici, in quanto causa il tracollo e la banalizzazione severa delle biocenosi rurali, abbattendo la varietà vivente delle campagne e dissolvendo il suo grado di interrelazione sistemica. In un pianeta messo in ginocchio dal collasso della biodiversità, dove le attività antropiche (cancellando ogni anno decine di migliaia di specie eucariote dalla faccia della Terra) ci hanno scaraventato nella sesta estinzione di massa della storia della vita, questo accanimento perverso e compulsivo nel fare tabula rasa della tessitura biologica che rende vivi i nostri territori è francamente inaccettabile. Poi è desolante sul piano estetico, per il tetro impoverimento e l’imbruttimento esiziale del paesaggio che comporta. Inoltre accentua anche l’erosione dei suoli, soggetti a un maggior dilavamento non più mitigato dalla vegetazione erbacea e arbustiva.
E infine è distruttivo per la salute delle persone, in quanto per molti dei composti chimici tossici impiegati e dei loro adiuvanti (che si infiltrano nel suolo, contaminano le falde acquifere e risalgono le catene trofiche accumulandosi nei tessuti viventi) esistono sospetti scientificamente fondati (sulla base di evidenze sperimentali ed epidemiologiche) che possano essere cancerogeni, mutageni, teratogeni, genotossici e lesivi per i sistemi endocrino, immunitario, nervoso, urogenitale, digerente, cardiovascolare e respiratorio. In breve, l’uso smodato di questi prodotti, mentre uccide erbe, humus e molti invertebrati, ci regala contemporaneamente cancro e altre malattie.
Ma non basta. È infatti anche del tutto stupido. Mentre in termini strettamente economico-produttivi il diserbo chimico applicato in campo alle colture cerealicole e affini può avere una certa logica (seppur il tema andrebbe molto approfondito…), questo forsennato accanirsi contro la copertura vegetale dei terreni marginali appare del tutto privo di senso. La vegetazione spontanea infatti potrebbe essere facilmente contenuta (senza avvelenare la terra) con semplici e poco dispendiosi mezzi fisici e meccanici: un unico rapido passaggio annuale di mezza estate con decespugliatore o trinciatrice.
Per chiunque abbia la minima, elementare alfabetizzazione sui processi e le dinamiche che governano il funzionamento degli ecosistemi, è di tutta evidenza come l’utilizzo di questi impattanti presidi fitosanitari andrebbe regolamentato in maniera più stringente e vincolante.
Ma al di là delle norme vigenti, appare di trasparente chiarezza come proseguire sulla strada di un simile massivo, demenziale e irresponsabile impiego di erbicidi costituisca la prova incontrovertibile che come cittadini, prim’ancora di aver annichilito e umiliato la vegetazione di ripe e sentieri, ci siamo irreversibilmente disseccati il cervello.