Favoletta: c’era una volta una bella collina verde, con prati, macchie d’alberi, nidi d’uccelli, tane di topi, di ricci, di talpe e in cima alla collina una casa d’inizio novecento, isolata e circondata dall’orto e dagli alberi da frutta. La collina si trovava al limitare della città, proprio dietro casa nostra e al quartiere Torretta , e ci si arrivava con una strada sterrata, la strada Laverdina, incredibilmente polverosa o fangosa secondo il clima e che segnalava l’inizio della campagna e di un diverso respiro fisico e interiore.
Ma, un anno fa o poco più, gli alberi sono stati abbattuti, la collina violentemente sbancata rivelando il suo ventre di terra bianca, impotente a difendersi, e uno stormo di altissime gru meccaniche, sinistramente cigolanti e dondolanti, vi è atterrato quasi senza che ci fosse dato il tempo per rendercene conto ...
Erano anni che si parlava di questa sciagura, ma siccome non era mai successo nulla, come quando da bambino ti devono fare un’iniezione e tardano, ci illudevamo senza motivo che se ne fossero scordati.
Figuriamoci se poteva essere vero: non solo i lavori sono iniziati, ma con la buona (se così la si può chiamare) stagione, invece delle casette di cui si era parlato, abbiamo visto crescere, con una velocità da OGM, dei condomìni di dimensioni spropositate rispetto all’appezzamento di terreno su cui venivano costruiti e tutti addossati gli uni agli altri, tanto che i futuri inquilini, stendendo un filo tra gli appartamenti, potranno scambiarsi cestini come nei carrugi liguri o nei bassi napoletani.
L’effetto estivo è stato deflagrante: ogni mattina uscendo ci si sentiva più soffocati da quelle masse di mattoni, di vuote finestre, di ponteggi e di pareti che crescevano senza pietà, assiepandosi come in un’inquadratura espressionista. Sotto la luce impietosa dell’estate cresceva, a due passi da noi, una colonia di cemento assassino: assassino per la collina e per i suoi abitanti, animali, arborei e umani e assassino per chi si ritrova improvvisamente di fronte ad un orizzonte devastato e ad una speranza in meno.
Qualcuno dirà che anche il quartiere Torretta è sorto là dove un tempo c’erano i campi e la campagna: certo, ma erano gli anni Sessanta e Settanta e nel frattempo qualche riflessione avremmo pure dovuto farla. E poi, se non altro, nel nostro quartiere, tra le case ci sono aree verdi e giardini, piazze ed il bel Parco Rio Crosio: andate a verificare di persona con quali avanzati criteri si sta costruendo ora, a fine 2008, sull’area sopra la strada Laverdina.
Non si può non provare pena, posso dire dolore, di fronte a un simile scempio, senso di soffocamento, impotenza e ribellione, così come quando si guarda dall’alto il vasto territorio che circonda la nostra città e ogni volta si conta qualche capannone in più (anche se poi la crisi industriale è come un’emorragia insanabile e centinaia di persone continuano a perdere il lavoro) e qualche nuovo ipermercato, dove non si sa chi spenderà denaro: tutti segni sicuri della zampata di un’ignoranza arrogante e volgare, sorta in seno ad una società completamente disorientata.
Durante la visita ad una mostra allestita a Torino in onore dei cento anni di Oscar Niemeyer, ho sentito il secolare artista dichiarare, nel corso di un’intervista, che un architetto non può limitarsi a sapere d’architettura, ma deve conoscere ed amare la filosofia, l’arte, l’intelligenza e la passione umana, perché quello che costruirà sarà come un dono duraturo che deve inserirsi sul territorio, per la comunità intera. E aggiungeva che il resto - i soldi, la competitività, la moda, la fretta - non sono valori, ma solo merda.
Diceva proprio così il centenario: merda. Che è quello che si sta spargendo a larghe mani intorno a noi, nonostante gli impotenti “Osservatori del paesaggio” e tutto il resto.
E dire che qualche amministratore spiritoso, ha persino pensato di proporre all’UNESCO la candidatura delle colline astigiane a divenire patrimonio dell’umanità mentre, al contrario, il nostro territorio sta divenendo paradigma dell’incredibile e rampante arretramento culturale d’inizio ventunesimo secolo, quando d’improvviso si scopre, in questo caso come in tanti altri, il tentativo ben riuscito di relegare la memoria di tutto ciò che è accaduto nel secolo precedente in un becero oblio, come se non fosse mai avvenuto: l’ombra del profitto sparge cemento sulla terra viva come nel dopoguerra e apre centri commerciali come i conquistadores aprivano le loro borse di perline di vetro di fronte alle popolazioni che volevano derubare e ridurre in schiavitù.
E intanto crescono rigogliosi, in ogni spazio libero, su ogni superficie verde e luminosa intorno alla città, muri e spiazzi d’asfalto, come nella foresta crescono mangrovie e liane: Mowgli, Baloo e Bagheera cercano rifugio nel profondo di una jungla immaginaria e ascoltano allontanarsi il chiasso immotivato del Popolo delle scimmie, che corre trascinato dalla propria confusione, senza sapere dove, consumando e devastando al suo passaggio.
Ma nel suo rifugio Mowgli affina la coscienza che, non solo quanto lo circonda è suo patrimonio, ma lui stesso è patrimonio del mondo nel momento in cui comprende di doverne avere cura e di doverlo difendere con la ragione e con l’anima dall’avanzare dello scempio, dall’abbruttimento e dalla rovina.
E noi, chi vogliamo essere, Mowgli o una rappresentanza del Popolo delle scimmie ?