di Vittorio Emiliani.
Il governo Renzi annuncia lo stop al consumo di suolo, ma con lo Sblocca Italia e con la legge di stabilità va in direzione opposta. I Comuni continueranno a usare gli oneri di urbanizzazione per “fare cassa”. A danno dell’ambiente, del paesaggio e dei servizi ...
Impermeabilizzato il 7,3 % di suolo italiano. Napoli il Comune con più cemento e asfalto. Poi Milano. Lombardia e Veneto le regioni più impermeabilizzate. Restano per questo in superficie in tutta Italia 270 milioni di tonnellate di acqua piovana all’anno.
Le buone intenzioni ci sarebbero. In commissione, dopo i recenti disastri alluvionali, il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, si è pronunciato per un immediato stop al consumo di suolo. Misura sollecitata da anni da urbanisti (Salzano, De Lucia, Meneghetti, Berdini e altri) e ambientalisti. Finalmente ci siamo? A parole. Nei fatti si va in direzione opposta con lo Sblocca Italia e con la legge di stabilità.
Lo ha denunciato l’ex ministro alle Politiche agricole, Mario Catania, firmatario di un disegno di legge contro il consumo di suolo: la legge di stabilità consentirà ai Comuni di impiegare ancora i proventi degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente. L’edilizia dunque potrà essere di nuovo da essi accelerata. In parte è soltanto un’empia illusione perché ci sono centinaia di migliaia di alloggi e di uffici vuoti e invenduti Ma sarà la recessione a rallentare il consumo di suolo e non la volontà del governo Renzi espressa con la legge di stabilità.
La svolta decisiva risale alla primavera 2001. Il governo Amato, a sei giorni dalla sua uscita di scena per far posto al nuovo governo Berlusconi, elimina dal Testo Unico per l’edilizia su proposta del ministro per la Funzione pubblica, Franco Bassanini (una lunga milizia a sinistra, prima nel Psi , poi nella Sinistra indipendente, nominato nel 2008 da Giulio Tremonti presidente della potente Cassa depositi e prestiti) un articolo-cardine, il n.12, della legge sui suoli n.10/1977 voluta dal repubblicano Pietro Bucalossi.
Esso prescriveva che “i proventi delle concessioni e della sanzioni” dovevano essere versati in un conto corrente vincolato, per essere “destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, nonché all’acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali”. Tutto cancellato. Da quel momento i Comuni – ai quali il governo centrale trasferisce sempre meno soldi – sono autorizzati ad utilizzare gli oneri di urbanizzazione “per fare cassa”, per la spesa corrente.
Una follia perché in tal modo i piani urbanistici vengono stravolti con cento varianti, pur di far correre l’edilizia che, non a caso, galoppa dal 2001 al 2008, sino alla gelata della recessione mondiale. A danno ovviamente dell’ambiente urbano e del paesaggio, a danno dei servizi primari e secondari da fornire ai cittadini. Nel primo caso strade, fogne, luce, gas, illuminazione pubblica, aree a verde, parcheggi, ecc. Nel secondo, asili, scuole materne e poi di ogni livello, consultori, chiese, verde attrezzato di quartiere e altro ancora.
Di più: quel denaro fresco che entra nella casse comunali col pagamento delle concessioni edilizie ha un effetto positivo effimero. Non nel medio e lungo periodo: fatti i dovuti investimenti nei servizi, al Comune, e quindi, alla lunga, ai suoi abitanti quel vorticare di concessioni edilizie tornerà in fronte come un boomerang. Con l’aggravante di ritrovarsi un territorio e un paesaggio degradato dall’abbinamento cemento+asfalto.
Quel boom dei primi otto anni del nuovo secolo ha almeno sanato la “fame di case” a prezzo o a fitto equo, medio-basso? Neanche per sogno: si trattava di condominii, di ville e villette “di mercato”. Molte erano seconde e terze case destinate a sfasciare definitivamente territorio e paesaggio. Quindi la domanda di case economiche o sociali – per giovani coppie, per famiglie immigrate, ecc. – non ha ricevuto da questo boom edilizio risposte di sorta. Così si è creato un enorme stock di alloggi e di uffici vuoti, invenduti, sfitti, in tutte le città italiane, a fronte del quale fioccano le occupazioni di case, popolari e non.
Non c’erano mezzi legali per frenare, per ridurre questa folle corsa? C’era il Codice per il paesaggio che prescrive, da anni ormai, ad ogni Regione di co-pianificare col Ministero dei Beni culturali e di approvare poi quel piano paesaggistico in grado di obbligare gli italiani alla virtù e alla saggezza. Sì, ma soltanto una regione per ora, la Toscana, per merito della giunta presieduta da Enrico Rossi e dell’assessore Anna Marson, ha redatto e approvato, fra polemiche roventi di cavatori, immobiliaristi, costruttori, speculatori vari, il piano paesaggistico e con esso la nuova legge urbanistica. E le altre? Più ombre che luci, a volte buio pesto. La fresca legge lombarda forse riuscirà a peggiorare le cose.
Malgrado la crisi, anche nell’ultimo triennio, secondo i dati dell’Ispra, il consumo di suolo ha galoppato follemente. Eppure la superficie agricola italiana si era già ridotta nel quarantennio 1971-2011 del 28 %, circa 5 milioni di ettari in meno, una superficie pari a Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna sommate insieme.
Mentre l’abbandono ormai cronico della montagna fa precipitare a valle acqua, tronchi, fango, terra in quantità inusitate durante le piogge battenti di ogni stagione ormai.
In pianura questa fiumana violenta trova terreni già allagati perché resi “impermeabili” da asfalto e cemento per superfici immense e che quindi non assorbono più una massa d’acqua enorme: 270 milioni di tonnellate all’anno. Milano è, dopo Napoli, il Comune più impermeabilizzato con oltre il 60 % della superficie seguito a ruota col 48 % da Monza. Acqua di sopra e acqua di sotto: la falda sotterranea è risalita rapidamente con la chiusura dei complessi siderurgici e tessili. Per cui Seveso, Lambro e altri corsi d’acqua straripano sempre più spesso.
Ultima beffa. Meno soldi da Roma? Si “fa cassa” con gli oneri di urbanizzazione (fra dieci anni qualcuno pagherà) e si alzano le tasse comunali. Dal 1997, cioè dalla prima legge Bassanini sul federalismo amministrativo, esse sono state inasprite del 200 %, contro il 35-36 % di quelle statali. Se questo è il federalismo, torniamo ad un regionalismo, equilibrato e “controllato”. L’“autocorrezione” dei vari enti ha prodotto in realtà un’“autocorruzione” diffusa, inquinante, insostenibile.
Vittorio Emiliani, da LEFT, 20 dicembre 2014