di Guido Bonino, architetto.
All’inizio degli anni ’30 il cemento si affacciò nelle costruzioni soppiantando poco per volta le murature portanti soprattutto perché consentiva strutture di dimensioni molto più contenute delle precedenti, non solo in verticale ma anche e soprattutto negli orizzontamenti, fino ad allora eseguiti con travi portanti in legno o ferro e mattoni posti a formare le “voltine” di tamponamento ...
Da allora il binomio calcestruzzo e ferro si impose nell’industria della costruzione tanto civile quanto industriale, proliferarono pertanto impianti per la produzione dell’elemento primario: il cemento, con i loro forni di cottura, ed altrettanto quelli che producevano i tondini di ferro: anch’essi lavorando la materia prima fusa per colatura all’uscita dagli altiforni.
Per il cemento armato, come per i mattoni, quindi la produzione avviene mediante scavo della materia prima, cottura ad altissime temperature, trasporto nelle zone di impiego, ove l’insieme assume le forme definitive in casseri di legno o metallo, e qui rimarrà salvo crolli e/o demolizioni che intervengano a decretare la fine di quella struttura o di quell’opera, che sarà smaltita con l’impiego di altre risorse energetiche.
Per garantirsi l’esistenza economica le industrie che producono il cemento, e quelle che lo lavorano (impianti di betonaggio, trasportatori ed imprese), necessitano di ampi territori su cui collocare opere sempre più ingenti, onde poter fare previsioni a lungo termine.
Essendo ormai finita l’epopea dei grandi complessi residenziali per carenza di acquirenti sia a causa della saturazione del mercato e sia per mancanza di finanziamenti, l’industria delle costruzioni si è oggi rivolta ad altri interventi per garantirsi la sopravvivenza: alta velocità su rotaia (essendo ormai satura la rete autostradale, e/o comunque non più in grado di garantire forti gettiti), opere portuali e fluviali (con ulteriore sfruttamento di beni pubblici quali il paesaggio e l’acqua) e infine – in dimensioni più locali e con iniziative private – il terziario: in altre parole “sfruttare i bisogni della gente”.
Da sempre esistono le botteghe, da sempre esse sono fonte di lavoro e reddito (oggi il più delle volte scarso) per i loro gestori; da sempre il negozio è il punto di incontro tra l’industria che produce per i fabbisogni della popolazione e quest’ultima, che si reca all’esercizio commerciale per soddisfarli.
E’ qui che l’industria della costruzione, vistesi altre attività ormai sbarrate, cerca la propria sopravvivenza concependo strutture che non dovranno più ospitare lavorazioni – la concorrenza di altre regioni ha portato in luoghi lontani la produzione dei manufatti – ma la vendita al pubblico.
Nuove strutture come l’Agrivillage o recupero di contenitori industriali abbandonati e fatiscenti – pertanto a basso costo d’acquisto – come “La Porta del Monferrato” diventano così la risorsa per coloro che non vogliono – o meglio non sanno – convertire la loro attività al di fuori dell’industria delle costruzioni e di un ormai saturo mercato immobiliare che non è più in grado di produrre alcunché, ed allora si apprestano a fagocitare quanto era proprio di un altro settore “il commercio”, divenendone con la forza delle loro disponibilità partner-economici.
Sulla base del principio “Se non possiamo più produrre case in quanto ormai soddisfatto il bisogno di abitazioni, dobbiamo impadronirci di quel commercio che non si perpetuerà perché mai si esauriranno le necessità della popolazione in termini di vestiario, vitto, tempo libero!”, si riversano ora capitali non già nella gestione del commercio, ma nella creazione di centri commerciali dalle differenti fogge ed ispirazioni, comunque atti e votati a raccogliere non già l’eredità, ma le risorse di quel commercio che da sempre è la vita dei centri urbani.
Non più passeggiate tra le bellezze storiche ed architettoniche del nostro concentrico o tra gli ameni paesaggi dei nostri paesi e delle nostre colline, ma visita obbligata a questo o quel villaggio costruito con cartongesso e marchi in franchising in cui far confluire intere famiglie spinte dal binomio "gita della domenica/economia negli acquisti".
E così, passando dalla gestione dei singoli esercizi del centro storico, che rimarranno sempre più vuoti e sempre più svalutati (sovente anche grazie all’esosità dei loro proprietari), alla gestione da parte di grandi SpA di immobili che verranno locati completi di svincoli autostradali e rotonde facilita-acquisti costruiti su misura degli accessi nel fine settimana, con relativa pubblicità e periodi di sconti quali richiamo, i singoli esercenti sono praticamente obbligati a conferire le loro già scarne risorse nelle nuove strutture, consegnando i loro utili a chi con queste non darà ulteriore impulso all’economia di quel territorio.
Sì, perché dopo aver sottratto oltre alle aree per l’insediamento, la viabilità, i parcheggi ed i servizi, ed anche le attività occupazionali da sempre proprie di un contesto abitato ed urbanizzato al solo scopo di provocare – con un’economia fittizia come i fabbricati in cartongesso - il trasferimento degli acquirenti lungo strade ed autostrade, incrementandone i consumi in termini di tempo e carburante, i gestori dei nuovi poli commerciali deporteranno in altre zone le risorse loro consegnate da incauti visitatori spinti nei loro centri dalla ricerca non solo di novità, ma soprattutto di “economie” irrisorie rispetto alla perdita di valore e di autonomia commerciale dell’intera zona in cui gli stessi si localizzano.
O, per meglio dire, “colpiscono” ...