di Guido Bonino.
“… la dove c’era l’erba ora c’è ….” cantava l’Adriano degli anni ’60. Nonostante siano passati quasi cinquant’anni da quella protesta, il copione si ripete inesorabile con il placet sia dell’Associazione Nazionale Alpini, che dell’amministrazione locale. Non credo si tratti di ignoranza di una delle più note colonne sonore che hanno accompagnato non solo i ragazzi della via Gluk – oggi ultrasessantenni o giù di lì – quanto, piuttosto, di assuefatta od artefatta dimenticanza della stessa. Al parco Rivo Crosio, nonostante l’instabilità del terreno che ha imposto costose palificazioni (leggasi: interramento di copiose risorse che avrebbero consentito come minimo di raddoppiare il Banco alimentare locale anziché finanziare centrali di betonaggio), prosegue la logica del “cementificare è più produttivo che recuperare” ...
Anche perché le opere e le risorse ad oggi impegnate non hanno ancora prodotto quanto già presente in altre soluzioni proposte oggi come nel passato alle penne nere astigiane.
Il sogno di ogni genitore degli anni ’60 (per le zone marginali, e/o di campagna anche per tutto il ventennio successivo) di vedere il figlio calcolatore di opere in cemento armato, direttore di strutture che vincono improbe battaglie contro le coltivazioni da generazioni in essere grazie alla tecnologia del seno e coseno per radice quadrata di gamma, è ancor oggi alla base dell’ammirazione da parte delle popolazioni indigene nei confronti di coloro che … hanno studiato, ed allora sanno!
Non molti purtroppo pensano, e meno ancora è noto in talune frange della nostra provincia, che da tempo non dovrebbero più esistere i professionisti del cemento. Lo stesso Consiglio Nazionale degli Architetti, deliberò da tempo che i suoi iscritti dovevano essere “Pianificatori, Paesaggisti, Conservatori”: del cemento nemmeno più l’ombra!
Di fronte a talune realizzazioni è d’uopo constatare con amarezza come a nulla siano serviti i vari premi “Attila” assegnati ad alcune opere in quanto effigi e simboli di quegli sfregi al territorio che solo l’umana tenacia, unita alla tecnica perversa dei calcolatori, avevano saputo, voluto e potuto produrre grazie anche a complici assensi.
Mentre dal sud della provincia partono richieste di riconoscimento da parte dell’UNESCO, dalle stesse zone viene imposta la cementificazione di un altro pezzo del verde della nostra Città, un tempo orgoglio verde del suo primo cittadino!
Probabilmente è vero che alcune idee viaggiano come le betoniere che ne costituiscono fulcro e quintessenza della realizzazione: non si fermano se non dopo aver scaricato il loro prodotto, poichè corrono il rischio che il “beton” divenga duro prima di aver raggiunto il suo scopo finale, che poi è pure la ragione della sua esistenza.
Ancora una volta la “fondazione beton” ha dato il meglio di sé, incurante però che strutture varie, costruite a prova di sclerometro (ogni riferimento al termine “sclerare” appare fuori luogo) proprio negli anni della contestazione del molleggiato, necessitano oggi di gravosi oneri per manutenzioni se non addirittura per la demolizione. Distruzione finale che le costruzioni del passato non hanno mai richiesto - anzi quelle demolite per far spazio alle opere dei cementificatori vengono sovente ammirate con rimpianto solo sulle foto d’epoca -, mentre le superstiti portate a nuova vita trionfano quali testimonianza di un’arte e di un passato che non potranno ritornare.
Asti, il cui ospedale – con gli ampliamenti di cui fu vittima illustre – rappresenta oggi un chiaro esempio di come nulla ha saputo e tantomeno vuole imparare dalla storia e dal suo stesso passato una città cieca e sorda a tali segnali.