di Paolo X Viarengo.
Nel libro IV delle sue “Storie”, Erodoto menziona per la prima volta la locuzione "terra e acqua" nella risposta del re di Scizia Idantirso nei confronti del re di Persia Dario. La richiesta di "terra e acqua" è una metafora che indica che i popoli che si arrendevano ai Persiani rinunciavano ai loro diritti sulla loro terra e sui prodotti della terra stessa. Consegnando all'Impero achemenide "la terra e l'acqua", i popoli sottomessi affidavano al re dei Persiani ogni autorità e ogni loro bene, compresa la loro stessa vita...
Anche in greco moderno la locuzione "terra e acqua" rappresenta la resa incondizionata al conquistatore. Alcune moderne teorie parlano di un controllo delle scarse fonti d’acqua dell’isola da parte di potentati locali come data di nascita della moderna mafia in Sicilia.
Il controllo dell’acqua come controllo della vita, dunque. Perché l’acqua è essenziale alla vita e ne è fonte. La terra non dà frutti senz’acqua e chi la controlla, controlla il lavoro dei campi. I suoi frutti. La vita stessa.
Ma cosa vuole dire controllare l’acqua? Come si fa a controllare una risorsa che di per sé non è controllabile ma è di tutti? Una risorsa che ha un ciclo ben stabilito ed autorigenerante e che per questo dovrebbe essere inesauribile?
Nasce dal mare dove si formano le nubi, queste creano la pioggia che la riporta a morire nel mare, passando per le cime delle montagne, i torrenti, i fiumi, i campi, le nostre gole. La parte però più interessante è tra i monti e il mare: dove ci siamo noi. Lì l’acqua viene incanalata, usata, bevuta, inquinata e, a volte, depurata e ognuno di questi passaggi ha un costo. Un costo che deve essere sostenuto da tutti per poterla utilizzare: un costo equo che tutti insieme stabiliamo e che tutti insieme paghiamo.
Paghiamo anche per chi non può farlo, perché l’acqua è vita e privarne qualcuno significa privarlo della vita.
Eppure non è così. Spesso e volentieri abbiamo ceduto terra ed acqua al conquistatore che non si chiama più Dario, Ciro o Serse ma si chiama Capitale. Abbiamo ceduto, in forma di resa incondizionata, le nostre vite a chi può controllarle, essendo il padrone della nostra terra e della nostra acqua. Magari un padrone benevolo e non autoritario e crudele; ma sempre un padrone, quando in realtà l’unico padrone delle nostre vite non è nemmeno Dio che ce ne lascia abusare come meglio crediamo, ma solo noi e nessun altro.
La nostra vita appartiene solo a noi ed è un Diritto acquisito per nascita. Nasciamo ed abbiamo Diritto a vivere. Abbiamo diritto alla terra dove stiamo. Abbiamo diritto all’aria che respiriamo. Abbiamo diritto all’acqua che ci dà la vita.
Sembra scontato, ma non è così. Sembra un'esagerazione dire che non è così, solo perché l’acqua non è un bene pubblico ma sta diventando piano piano un bene privato ovunque, come nella Sicilia ottocentesca. Sembra esagerato dire che la battaglia per l’acqua pubblica è la più grande delle battaglie che si debba combattere oggi, eppure, sia per i suoi significati nascosti ed evidenti, è così.
Stiamo correndo a grandi passi verso un mondo dove l’acqua dolce diverrà vieppiù un bene raro e prezioso e non solo nel terzo mondo e affiancati in questa nostra corsa disperata ci sono i Capitali che stanno prendendo il controllo delle acque. Multiutility. Multiservice. Società per Azioni, con fine di lucro come ultimo scopo, ma mascherate da Consorzi pubblici. Chiamatele come volete. In sostanza, ristretti gruppi di persone che hanno messo mano sul business del futuro e già attualmente lucrosissimo: la gestione di un bene che ci è indispensabile per vivere e che, causa cambiamento climatico in atto, diverrà sempre più raro.
La gestione della vita di tanti in mano a pochi.
Questo mi ricorda qualcosa e mi fa rabbrividire. La corsa non sarà più al petrolio, ai diamanti, all’oro. Quando all’inizio dello scorso secolo invademmo la Libia, i nostri ingegneri erano stravolti dal trovare, ad ogni trivellazione, solo petrolio e non acqua. Un tempo questo racconto faceva sorridere, ma ora non più tanto. Che ci fai col petrolio se sei morto di fame e sete in un deserto assolato? Al massimo puoi usarlo per far bruciare meglio la tua pira funeraria e null’altro. E mentre la tua pira illumina il cielo notturno, dai palazzi di vetro ed acciaio, uomini d’affari si sfregano le mani contenti del facile guadagno sulla tua vita. Sulla tua terra. Sulla tua acqua. Perché, ad oggi, la resa è incondizionata e stiamo cedendo terra ed acqua all’invasore.
Al Capitale.
Seriamente, io dovrò pagare l’acqua che scende dal cielo più di quanto costi trattarla, depurarla e farmela usare, per poter produrre un profitto per i pochi che la controllano? Seriamente, io non potrò stabilire se usarla, quando usarla o a chi farla usare, senza pagarne un prezzo perché non è più mia o non è gestita da rappresentanti che, liberamente, eleggo? Brutalmente questo potrebbe essere definito un furto anche se in realtà è libero mercato. Ma, se non tutti potranno essere d’accordo con la cara vecchia massima di Bertold Brecht, secondo cui non è ladro chi rapina una banca bensì chi la fonda, credo però sia inequivocabile che il presunto furto si trasformerà in omicidio quando non sarò più in grado di pagare il mio tributo sull’altare del Dio Denaro e non avrò più accesso ad un bene che è mio di diritto: la vita.
O l’acqua, fa lo stesso: la prima non esiste senza la seconda.
Lo stesso tributo che, già ora, molte popolazioni del cosiddetto terzo mondo non sono in grado di versare, ed allora pagano col sangue di guerre il loro sacrificio al Dio più crudele di tutti.