A seguito di una riflessione durata alcuni giorni, costellati da aggiornamenti drammatici sugli eventi che hanno investito Israele e la Palestina negli ultimi giorni, la redazione di OpenDDB e gli autori del documentario hanno deciso temporaneamente di rendere fruibile gratuitamente il film “Sarura. The future is an unknown place”.
In quanto filmmaker e distributori di documentari, ritengono che questo sia l’unico modo per provare a influire sulla comprensione del contesto in cui sono maturati gli avvenimenti degli ultimi giorni.
Così raccontano gli autori:
Esattamente un anno fa ci trovavamo nuovamente a Tuwani, in visita durante le manifestazioni pacifiche contro gli sgomberi delle comunità nel sud della Palestina. Israele aveva annunciato di voler evacuare tutta la regione del Masafer Yatta a seguito della sentenza dell’Alta Corte di Giustizia israeliana: le case dei pastori dovevano essere abbattute e migliaia di persone deportate dalle loro terre ancestrali. Dopo 20 anni di proteste pacifiche Israele ha dato ragione a se stessa: con pretesti di natura militare, avrebbe potuto confiscare le terre dei pastori palestinesi e deportarli lontano da dove erano nati e cresciuti.
La mattina della manifestazione a cui dovevamo partecipare, i soldati israeliani hanno circondato il villaggio armati impedendo alle persone giunte a Tuwani di muoversi, pena l’arresto. Un giorno di ordinaria Palestina.
Per una manifestazione pacifica simile a quella a cui abbiamo preso parte, Sami Huraini del collettivo Youth of Sumud alla fine di questo mese rischia la condanna presso un tribunale militare israeliano a sei anni di reclusione con l’accusa (falsa) di aver insultato un soldato. Abbiamo raccontato la storia di Sami, della sua famiglia e del collettivo nel film “Sarura. The future is an unkonwn place”. Le forze di occupazione stanno cercando di fermare la lotta nonviolenta di Sami e del suo villaggio in tutti i modi, spesso attraverso quotidiane provocazioni tali da spingere i palestinesi ad usare la violenza che permetterebbe ai soldati di effettuare arresti o di rispondere in maniera violenta con il pretesto dell’autodifesa.
Questo è quello che succede in Palestina, tutti i giorni, da 75 anni.
Quando la lotta pacifica e disarmata dei palestinesi si infrange contro la violenza armata degli israeliani non fa notizia, nessuno si strappa i capelli e tutto sembra poter rientrare entro l’ordine democratico e naturale delle cose.
Gli avvenimenti di questi giorni che riguardano Palestina ed Israele, la striscia di Gaza e i territori occupati non possono che addolorare e lasciare col fiato sospeso per la sorte di decine di migliaia di persone. Siamo consapevoli che le ritorsioni di Israele sui palestinesi non si fermeranno ai drammatici bombardamenti su Gaza - punendo l’intera popolazione Gazawi -, ma si stanno già propagando in tutti i territori occupati: ogni volta, il trambusto mediatico che riguarda Gaza è in grado di coprire e nascondere le violenze che esplodono in ogni angolo di Palestina.
Come ha ricordato recentemente l’osservatore speciale per le Nazioni Unite Francesca Albanese “il destino di questi due popoli è interconnesso” e non possiamo che essere “terrorizzati dalla narrazione e dal discorso che si sta affermando”: non bisogna chiedere vendetta, ma continuare a cercare la giustizia. In caso contrario non sarà soltanto uno dei due popoli a soffrire: continueranno a soffrire entrambi.
É impossibile non provare dolore per le nuove, ennesime vittime di ambo le parti che vanno ad alimentare un fiume costante di sangue e dolore che scorre tra questi due popoli, ma è necessario rimanere lucidi e in maniera incrollabile chiedere - nel nome della comunità internazionale - il cessate il fuoco e la riapertura del dialogo. Un dialogo che sembra sempre più lontano tanto più si soffia sul fuoco della violenza e della vendetta.
Quello che è accaduto sabato scorso non può non essere letto alla luce di una escalation di violenze che ha investito i territori occupati e Gerusalemme est negli ultimi mesi e che da più parti continuiamo a denunciare, spesso inascoltati. Grida di protesta costantemente ignorate da chi ora piange i suoi morti e da chi all’estero solo ora si ricorda di questa polveriera di corpi in procinto di esplodere.
Non può essere ignorato l’assedio che da 17 anni affama la striscia di Gaza minando qualsiasi speranza per un futuro che non sia di distruzione e morte. Non possono essere taciute le costanti provocazioni da parte dei coloni protetti dall’esercito nei territori occupati.
È questa cecità ad immolare il futuro su un altare di giochi politici che mirano alla mera distruzione e non alla creazione di condizioni di vita accettabili per milioni di persone sfollate da generazioni.
Da spettatori esterni di un conflitto che un conflitto non è, ma decennale occupazione di terre per mano militare, non possiamo che essere solidali e partecipi del dolore di centinaia di famiglie che hanno perso i propri affetti; siamo profondamente indignati per l’uccisione ed il rapimento di centinaia di persone, molte delle quali colte alla sprovvista ed al di fuori di un chiaro schema di offensiva bellica; disprezziamo le modalità di azione di una formazione integralista di cui non riconosciamo modalità di pensiero ed azione quale Hamas.
In virtù dello stesso sdegno, dolore ed orrore da anni sosteniamo la causa palestinese e la legittima lotta di liberazione della Palestina; riteniamo ipocrita ed indegno non considerare la progressiva occupazione e spoliazione delle terre dei palestinesi nei Territori e le continue uccisioni, arresti e violenze da parte dei soldati e coloni israeliani come il vero mandante delle azioni di resistenza armata e degli accadimenti di questi ultimi giorni. Pur non condividendo le modalità e strategie di Hamas, né tanto meno gli efferati omicidi di questi ultimi giorni, continuiamo a credere che sia nel pieno diritto di un popolo oppresso decidere come resistere all’oppressore e che il vero responsabile di queste morti risieda nella politica israeliana a cui il fronte di lotta palestinese continua a resistere.
Come ci siamo sentiti ripetere spesso nei nostri viaggi in Palestina, e negli incontri internazionali avuti in questi anni “possiamo resistere come vogliamo, ma dobbiamo farlo in maniera intelligente. I palestinesi muoiono ogni giorno, e questo accade dal ’48. Dobbiamo lottare per la vita e non per la morte”. Siamo certi che le azioni disperate ed estreme di questi giorni porteranno ancora a più morte e non ad un miglioramento delle condizioni di vita tanto del popolo palestinese quanto di quello israeliano.
Siamo anche noi preoccupati, come lo è il giornalista israeliano Gideon Levy, del ricorso ad un linguaggio deumanizzante da parte dell’establishment politico israeliano ed internazionale verso i palestinesi, perché questo non può fare altro che preparare il campo al massacro di una popolazione di due milioni di persone in trappola senza luce, acqua, gas, cibo e acqua e sotto assedio da parte di missili e bombe al fosforo.
Nessun attentato terrorista può essere alla base di un reazione del genere senza che sia già inscritto nella strategia politica di un Paese che da decenni pensa di poter decidere arbitrariamente della vita e della morte di un popolo intero.
Siamo inoltre sinceramente preoccupati per l’ondata di violenza che sta dilagando in tutti i territori come anche nella nostra amata At-Tuwani, dove oggi pomeriggio coloni armati sono entrati, sotto scorta dei soldati, sparando agli abitanti del villaggio senza motivo.
Ricordiamo che scene del genere si sono verificate spesso negli ultimi anni, spesso senza alcuna giustificazione né motivazione da parte delle forze di occupazione israeliana se non quella di esasperare gli abitanti palestinesi e spingerli a reazioni violente, in modo da poter dare legittimità alla repressione armata con la scusa dell’autodifesa e della protezione dei coloni.
Qualcosa di molto simile, ma su scala infinitamente superiore, a quello a cui stiamo assistendo oggi. Nulla è cambiato, anzi tutto sembra procedere secondo un piano ben rodato dopo 75 anni di crimini e violazioni dei diritti umani.
Questo è uno dei motivi per cui da sempre sosteniamo i comitati di lotta popolare nonviolenta e lo faremo sempre: lungo questa linea camminano insieme i palestinesi, la comunità internazionale e la parte pacifica della popolazione israeliana. E sono queste persone che oggi più che mai devono fare sentire la loro voce.
Fermiamo immediatamente questa strage annunciata e continuiamo a chiedere giustizia e dignità per il popolo palestinese!
É necessario che tutti continuino a chiedere giustizia se vogliamo che a parlare non siano le armi e che a morire non sia il futuro.