di Sara Marani e Gabriele Proglio.
La domanda non è banale né inopportuna.
Molti storici, oggi, recitano il ruolo di terapeuti dell’identità nazionale e da questo pulpito rivendicano la necessità di continuare a parlare di Resistenza, di tenere duro ogni anno con le celebrazioni ufficiali del 25 aprile etc. Senza un momento fondativo e condiviso, dicono, la collettività non potrà mai davvero riconoscersi nelle sue istituzioni statali e diventare una Repubblica maggiorenne, consapevole. Spesso questa posizione nasce dal tentativo di arginare pericolosi revisionismi e qualunquismi beceri. Tuttavia riteniamo che una visione del genere sia pre-politica e insufficiente. Aprire un dibattito collettivo, anche in una piccola comunità come Alba, deve sempre essere una scelta politica: infatti riflettere insieme sull’uso pubblico della memoria della Resistenza significa anche interrogarsi sui rapporti di potere che giocano la loro partita non solo nella sfera economica, ma anche in quella culturale e nella memoria collettiva ...
Questo è, in piccolo, l’obiettivo del nostro seminario. La Resistenza è stato l’evento della storia repubblicana forse meno “storicizzato” nel senso deteriore del termine, ovvero imbalsamato, inchiodato al suo posto nella linea del tempo. Con il suo serbatoio di miti, esperienze, progetti, emozioni, il ricordo della Resistenza ha animato il fiume carsico dell’antifascismo, che preesisteva al 1943 ma che nella Resistenza si espresse in tutta la sua forza attiva, di massa, e che tornerà in innumerevoli occasioni nella storia della Repubblica.
Per questo motivo il fantasma della Resistenza ha vestito moltissimi panni diversi nella storia del secondo dopoguerra, animando le diverse memorie collettive, spesso anche in conflitto tra loro, verso obiettivi a volte opposti. I “giovani dalle magliette a strisce”, che nel luglio del 1960 scesero in piazza contro l’MSI e il governo Tambroni, che cosa avevano in comune con i vecchi antifascisti, che fino a poco tempo prima li descrivevano come giovani indifferenti alla politica, apatici, consumisti? Cosa avevano in comune i personaggi dei governi del centrosinistra, con le loro riforme più o meno riuscite o solo vagheggiate in nome di una rediviva unità antifascista al governo, e le Brigate Rosse, che si ispiravano alla vita clandestina dei GAP di Giovanni Pesce? Eppure tutte queste figure, che si agitarono in quegli anni sul palcoscenico italiano, avevano nel loro Pantheon la Resistenza. Stesso serbatoio di miti per ideologie e pratiche politiche diversissime, talvolta proposte dall’alto delle istituzioni, altre volte elaborate in autonomia da movimenti sociali o gruppi rivoluzionari.
Anche oggi, quando si parla di Resistenza, il discorso che si produce è sempre condizionato dai conflitti sociali, dalla politica, dagli equilibri parlamentari, dal mercato. Questo di per sé non è un male, ma è il destino di ogni avvenimento che abbia ancora un’influenza sul presente, e che dunque venga raccontato per fornire degli esempi, trasmettere dei valori, mettere in guardia dalle degenerazioni della vita civile. Oggi anche gli anni sessanta sono letti in modo mitico. Si tratta di una particolare ironia della storia: in un gioco di specchi, le accuse che il movimento studentesco e la nuova sinistra rivolgevano alla beatificazione interessata della Resistenza sembrano particolarmente adatte anche a comprendere come molti fenomeni e movimenti, prima repressi e rinnegati, diventino poi patrimonio comune e vengano anche celebrati e sfruttati dai vecchi nemici.
Perché diciamo che queste narrazioni hanno svuotato di senso i movimenti degli anni ’40 e degli anni ’60? Ecco alcuni elementi. Manca, come già nella lettura della Resistenza propagandata dal centro-sinistra negli anni ’60, una seria riflessione sul conflitto, sulla valenza positiva attribuita alla violenza e alla lotta di classe dall’attivismo resistenziale e poi sessantottino. Mancano i nemici, la controparte del movimento, proprio come, nella retorica sulla Resistenza mancava il riferimento al nemico fascista, rendendo la lotta di Liberazione un episodio impersonale, che vide schierati da una parte i resistenti, dall’altra un male metastorico di cui, in un certo senso, i fascisti stessi furono vittime. Queste lacune sono riempite da altri stimoli che quei momenti eccezionali hanno consegnato alla storia. L’enfasi è rivolta in particolare alla carica antiautoritaria e antipolitica che si manifestò, in forme diverse, sia nella Resistenza sia nei movimenti sociali del dopoguerra. La differenza è che oggi quell’orizzontalità, quel rifiuto anticonformistico è diventato supporto ideologico ad un sistema che è riuscito ad inglobare ed utilizzare quei valori per accompagnare lo storico passaggio, avvenuto nei paesi occidentali, tra una produzione di tipo fordista ad una immateriale, post-fordista.
Questo essere contemporaneamente “passato e presente” di alcuni momenti storici va affrontato in modo consapevole. Prima di tutto, se sappiamo che esiste una narrazione dominante sulla Resistenza, abbiamo il dovere di decostruirla e di mostrarla controluce. Solo con un’operazione di questo tipo si potranno leggere in filigrana i messaggi del nostro tempo, mentre non ha lo stesso valore conoscitivo e politico una formale difesa ad oltranza di “valori” enunciati in modo metastorico. In secondo luogo, dobbiamo avere il coraggio di porre la domanda giusta al nostro rapporto con il passato. La passione pedagogica ci induce, forse, a chiederci: “come facciamo a comunicare i valori della Resistenza oggi, senza rischiare che il messaggio sia usurato e completamente svuotato di senso?”. Forse una domanda più fertile dal punto di vista intellettuale e politico sarebbe piuttosto una onesta messa in discussione della nostra stessa memoria. “Ha ancora senso, oggi, parlare insieme di Resistenza per resistere davvero ai nostri nemici nei conflitti politici e sociali più significativi del nostro tempo?”.
Solo se a questa domanda la risposta sarà affermativa si dovrà procedere, con tutta la grinta che abbiamo, chiedendoci “come fare”. Se non saremo in grado di rispondere in modo convincente la Resistenza, come tanti altri eventi del passato, una volta scomparsi tutti i testimoni diretti, andrà consegnata al lavoro degli storici. E ad Alba andrà abbandonata ai suoi custodi ufficiali, prudenti e tremebondi: le istituzioni cittadine, la diocesi, i commercianti di vino e gli addetti alla cultura.