di Domenico Massano.
In vista della prossima Marcia della Pace PerugiAssisi il 10 ottobre, alcuni piccoli ricordi e spunti dal festival estivo “Senza perdere la tenerezza”, promosso e organizzato dalle ACLI di Asti con il coinvolgimento di altre realtà locali, e il cui sottotitolo “La cura della città per una città che cura”, specificava ulteriormente l’obiettivo dei diversi incontri finalizzati ad aprire: “Una riflessione a più voci e con più testimoni sulle fragilità che la pandemia ci consegna ancora più evidenti, ancora più dolorose”. Lo spirito di apertura e la valorizzazione del dialogo hanno permesso di attraversare, accompagnati dall’alternarsi e dal sovrapporsi di prospettive e contributi laici e religiosi, temi importanti e centrali per prefigurare e contribuire a costruire “un altro mondo necessario”...
Gli incontri si sono svolti nella bella cornice dell’ampio cortile del Foyer delle famiglie, nel centro di Asti, ed è qui che ho avuto il piacere (anche in relazione all’impegno comune con la Rete Welcoming Asti), di essere invitato per dialogare, a partire dalle ultime Encicliche papali, con Don Luca Solaro, moderati da Daniela Grassi, nell’incontro di apertura del festival (introdotto da Mauro Ferro, Giovanni Valente e Francesco Scalfari).
Lo svolgimento stesso del primo incontro, un dialogo simbolicamente accompagnato da una bandiera della pace, richiamava implicitamente l’enciclica “Fratelli tutti”: “La pace sociale è laboriosa, artigianale. ... Integrare le realtà diverse è molto difficile e lento, eppure è la garanzia di una pace reale e solida. ... Quello che conta è avviare processi di incontro, processi che possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze. Armiamo i nostri figli con le armi del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro!”.
Pace e dialogo, nell’incontro con chi vede le cose da prospettive diverse, sono anche il presupposto del richiamo, in chiusura dell’enciclica, all’insegnamento di tre rivoluzionari fratelli non cattolici: Martin Luther King, Desmond Tutu e il Mahatma Gandhi.
Campioni della pace capaci di trasformare con la nonviolenza il mondo attorno a loro e lasciare un segno indelebile nella storia ed una traccia da seguire ancora oggi, a partire dal metodo proposto per il cambiamento indicato da M. L. King nei suoi sermoni: “Una terza via si apre nella nostra ricerca della libertà, cioè la resistenza non violenta, che unisce l’acutezza di mente e la tenerezza di cuore ed evita la compiacente ignavia degli ottusi di mente e l’amara violenza dei duri di cuore”. Metodo riscontrabile anche nelle lotte di Desmond Tutu, in particolare quelle affrontate al fianco di Nelson Mandela, arricchito dal costante riferimento all’Ubuntu, ossia al legame che connette l’umanità nella sua interezza: “L’Ubuntu è uno degli elementi indispensabili per vivere una vita all’insegna del coraggio, della compassione e della solidarietà. … La migliore espressione di questa filosofia è una massima presente in quasi tutte le lingue africane, che possiamo tradurre così: Una persona è una persona tramite altre persone. Significa che tutto ciò che impariamo e sperimentiamo nel mondo si deve alle nostre relazioni con gli altri”.
L’influenza generativa del mahatma Gandhi è poi evidente nelle parole di Aldo Capitini, che ne ha fatto conoscere e diffuso il pensiero e le pratiche non violente in Italia e che è stato l’organizzatore della prima Marcia della Pace Perugia-Assisi nel 1961: “La nonviolenza è la manifestazione esterna di un modo di sentire e di pensare, che è l’amore per tutti … il nonviolento è il più attivo di tutti, perché non solo vuole vincere dentro di sé l’indifferenza e l’odio, la stanchezza e l’egoismo, ma vuole vincere tutto ciò che colpisce e divide gli uomini, e perciò il nonviolento non accetta questa società”.
L’impegno e l’intuito di Capitini lo portarono a promuovere nel dopoguerra il C.O.S., Centro di Orientamento Sociale, un luogo di approfondimento, confronto e dialogo aperti alla partecipazione ed al contributo di tutti, con la prospettiva di: “creare uno spazio nonviolento e ragionante, secondo il vecchio nostro principio di ascoltare e parlare”, nella certezza che, così facendo, si sarebbe instaurato qualche cosa di nuovo, si sarebbe messa in moto una realtà migliore, una comunità aperta che avrebbe invitato a “dare senza bisogno di ricevere, aprire le menti, le situazioni, gli errori, i pregiudizi, i privilegi, senza con ciò volere le approvazioni e i compensi, senza creare il gruppo chiuso ed esclusivo”.
Un luogo di incontro e dialogo, fondato sulla solidarietà e sull’impegno per la giustizia sociale, in una prospettiva che sembra riecheggiare anche nella enciclica “Fratelli tutti”, con particolare chiarezza: “Solidarietà è una parola che non sempre piace … È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi”.
Una prospettiva di giustizia e solidarietà che è ben delineata nella nostra Costituzione, in particolare negli articoli 2 e 3, che così erano presentati all’Assemblea Costituente nel 1947: “Preliminare ad ogni altra esigenza è il rispetto della personalità umana; qui è la radice delle libertà, anzi della libertà, cui fanno capo tutti i diritti che ne prendono il nome. Libertà vuol dire responsabilità. Né i diritti di libertà si possono scompagnare dai doveri di solidarietà di cui sono l'altro ed inscindibile aspetto. Dopo che si è scatenata nel mondo tanta efferatezza e bestialità, si sente veramente il bisogno di riaffermare che i rapporti fra gli uomini devono essere umani”.
L’adempimento comune dei “doveri inderogabili di solidarietà” (art. 2), si accompagna al dovere della Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” (art. 3) che impediscono o limitano la libertà, l’uguaglianza, il pieno sviluppo e la partecipazione di tutte e tutti, inclusi coloro che nella sua enciclica Papa Francesco definisce esiliati occulti, ossia quelle tante persone con disabilità e anziane che sono trattate come corpi estranei della società, che sentono di esistere senza appartenere e senza partecipare.
Purtroppo, come evidenzia il filosofo e pedagogista Edgar Morin nel suo recente saggio “Fraternità”, stiamo assistendo non solo ad un acuirsi delle ingiustizie sociali, ma anche ad una progressiva perdita di senso della solidarietà, cui contribuiscono “l’isolamento delle persone all’interno del proprio ambito specializzato di lavoro (e di vita, ndr), che impedisce loro di accedere ad una visione o concezione d’insieme, e anche il dominio di un pensiero che separa e compartimenta, esso stesso incapace di accedere ai problemi fondamentali e globali della vita in società. … Dobbiamo creare degli isolotti di vita altra … oasi di fraternità”.
Il dialogo, la nonviolenza, gli spazi e le occasioni di incontro e convivialità, come il festival “Senza perdere la tenerezza”, possono essere elementi costitutivi di piccole oasi di fraternità che, forse, non basteranno a migliorare il futuro dell’umanità, ma che sicuramente alimentano qualsiasi percorso partecipato di pace e costituiscono quei necessari germi di speranza e “punti di partenza per una fraternità più generalizzata in una civiltà riformata”.