di Luca Durandi.
Oggi ritorno con nostalgia all’ultimo incontro avvenuto a Variglie. Era fine ottobre, l’aria fresca, la luce chiarissima filtrava con pochi raggi precisi fra i rami e le foglie autunnali. In quell’occasione ci siamo detti molte cose, senza affrontarle in modo approfondito perché – si intuiva – Giuseppe era stanco. Ognuno poi per conto suo avrebbe pensato a quanto era stato detto come spesso avveniva dopo un nostro incontro. Quel pomeriggio è stato sereno. Giuseppe mi fece due domande rivelatrici dei suoi pensieri ...
Ad esse, lo riconosco, non risposi in modo adeguato forse anche perché, come dicevo, questa volta nessuno dei due voleva andare a fondo delle cose ed era bello stare insieme intrattenendoci semplicemente in modo discorsivo.
La prima domanda: “Luca, mi sai dire cosa sarà del mondo una volta finite le risorse, le cosiddette materie prime?”, l’altra: “Come è avvenuto che un tempo – quando ero giovane – qui nella mia cascina nei momenti di punta vi erano 30/40 persone fra piccoli e grandi ed ora ci vivo solo io?”.
Indubbiamente le domande sono collegate fra loro e rappresentano il sottofondo del mio ricordo.
Alla prima rispose brevemente lui stesso: “Molti – disse – risponderebbero: andremo su Marte e di là su altri mondi più lontani ancora. Sono ottimisti. Prima avranno distrutto la terra, poi distruggeranno Marte e gli altri mondi. La nostra era geologica così disastrata è quella determinata dall’uomo che è riuscito a sostituire all’era naturale la sua era: quell’antropocene di cui tanto si parla. Per un suo improbabile progresso, l’uomo distrugge più risorse di quante la terra può produrre ed agendo in tal modo egli è stato addirittura in grado di modificare lo stesso ambiente, il clima, la stessa geologia, nella loro totalità, ma in peggio. Non parliamo poi dei mezzi di distruzione ora presenti sul pianeta”.
In quel momento non avevo commenti immediati da fare ma oggi, quasi riprendendo quel colloquio, vorrei insieme a Voi, e come fosse presente Giuseppe, fare alcuni ragionamenti e chiedermi come può l’uomo non controllare gli effetti del suo progresso e se si può vivere senza il progresso o se è possibile vivere con il progresso?
Il problema è capire, come sempre si domandava Giuseppe, in cosa consista il progresso perché non è accettabile a scatola chiusa l’affermazione che “il progresso ha sempre ragione”, come esclamava entusiasta Tommaso Filippo Marinetti dopo aver assistito ad una corsa automobilistica a Monza a oltre 100 km/h. Ragione a favore di chi? Per che cosa? Contro chi? Contro che cosa?
Anche alla seconda domanda non risposi, né Lui andò a fondo. Rimasi un po’ perplesso. Interpretai quella domanda come rivelatrice di uno stato d’animo, della sua incredulità che l’individuo e la stessa società nel suo insieme potessero essersi così estraniati dalle proprie tradizioni, dalla terra, dalla natura, nel modo che possiamo constatare noi stessi.
Giuseppe infatti aveva una profonda sensibilità per l’essenzialità delle cose, le tradizioni, la vita e la bellezza della natura, per il lavoro della terra, quale attività di grande elevazione morale per il contatto diretto con il Creato e a sua volta unica creatrice di vera ricchezza perché il lavoro umano viene moltiplicato dall’opera della natura.
Mi domando sino a che punto avesse nostalgia per il passato. In fondo anche Lui aveva una moderna attrezzatura meccanica per le sue attività ed oltretutto seguiva a fondo le evoluzioni tecniche, frequentando convegni ed adunanze e leggendo sino a tarda ora per essere poi in piedi ugualmente molto presto.
Egli certo non poteva ignorare il fatto che mentre un tempo – anche qui si parla della nostra gioventù, non di tempi lontanissimi – un uomo e una donna di campagna erano in grado di sopperire solo alle necessità elementari della propria famiglia ed a malapena a quelle di un’altra, oggi gli attuali loro omologhi possono produrre quanto occorre per altre 30 famiglie coltivando una superficie totale assai più ridotta. In 40 – 50 anni la produttività del lavoro in agricoltura è infatti aumentata di 10 – 15 volte, quella della terra almeno di 3.
Con quest’ultima domanda Giuseppe non si dimostrava critico della moderna agricoltura perchè infatti egli apprezzava sempre moltissimo quel progredire economico e sociale delle campagne anche dovuto a sistemi e mezzi che Lui stesso non praticava. Era però contrario all’uso, tuttora diffuso, di tecniche incuranti delle conseguenze sull’ambiente che certamente garantiscono guadagni più elevati quali ad esempio la coltivazione molto intensiva, la distruzione dei centenari prati stabili e quindi della materia organica, la monocoltura, le eccessive lavorazioni dei suoli.
Ma ciò che maggiormente Lo sorprendeva era come ormai la stragrande parte della gente avesse perso ogni legame con la terra, con il mondo agricolo, il proprio passato, con la propria tradizione e l’ambiente e fosse indifferente al modello di utilizzazione del territorio. Una buona parte del 97% della popolazione totale, divenuta ormai extra agricola, non ha mai visto un vitello, una gallina, una farfalla, una margherita. Quale mai può essere stata l’attrazione per un mondo così artificiale? Ma anche gran parte dello stesso mondo agricolo non sente più con la forza di un tempo, l’ “esprit du territoir” e di appartenenza che lo legava al paese, alla propria gente, al tipo di utilizzo del territorio. In queste condizioni la natura troppo spesso è diventata solo più un qualcosa da sfruttare.
Forse, come dice Emanuele Severino: “Il passaggio da una società prettamente agricola a quella industriale o più ancora a quella postindustriale è stata ed è troppo rapida rispetto alla nostra capacità di farvi corrispondere un adeguato sistema di riferimento etico. Sembra così che questa evoluzione sia comandata da un’intelligenza artificiale, essa stessa creata dall’uomo, che ora però soverchia il proprio inventore come del resto già prevedeva George Orwell negli anni ’60”.
Domandiamoci quindi con Giuseppe come la nostra società abbia potuto rompere così profondamente il rapporto con la terra da cui tutto proviene, non solo sotto forma di beni materiali ma anche come forza spirituale rispetto al Creato, all’immanenza di Dio, alla coscienza del tempo e dei tempi al punto che Majakoski, cantore della rivoluzione industriale russa, a tutti i costi ed a tappe forzate, poteva giungere a dire che “dopo la conoscenza dell’elettricità la natura non interessa più ... così imperfetta”? Possibile che elettricità e natura siano antagoniste e che proprio l’elettricità debba essere prevalente?
Col tempo è prevalsa una visione svilente del Creato e fu una delle numerosissime sbornie dell’umanità del ‘900, il secolo breve, alle quali così tanti hanno partecipato con tutte le conseguenze che conosciamo.
Per Giuseppe la potenza della natura era invece Vangelo di vita e se a volte affiorava un senso di pessimismo per tante considerazioni, più forte era il senso di ammirazione e di gioia dinnanzi alla vivida bellezza e alla forza creativa della natura quale anche era manifesta nella sua stessa avita terra di Variglie dove ogni pianta cresceva rigogliosa e così con una felice immedesimazione il professor Salvadori in Cattedrale il 12 dicembre scorso rievocò giustamente il mondo di Lucrezio.
Giuseppe volle tornare alla terra dove era nato non per pigra accettazione di una tradizione ma per scelta, per rivivere i valori di un tempo, la solidarietà, la concretezza del lavoro, il risparmio inteso non come accumulo ma come non spreco anche della più piccola delle risorse: il fungo che oggi c’è e domani non c’è più, poteva essere essiccato, sfarinato e servire per tutto l’anno al posto di quei nostri dadi da minestra; i frutti delle noci americane, così ricchi di olio, costituivano un ottimo combustibile per la stufa e l’ultimo calore di questa era poi utile per tostare le nocciole, essiccare frutti vari, persino ì caki che conservava per l’inverno. Molte erbe, il miele, la propoli, il polline potevano prevenire e curare piccoli malanni, i maglioni, le coperte, i mutandoni, le trapunte dispensavano dal consumo della legna, il riuso dei rifiuti era massimo. Per questo Giuseppe citava sorridendo Jean Jacques Rousseau che si era schierato fra i contrari alla costruzione delle fogne di Parigi perché avrebbero sottratto agli orti cittadini qualcosa di utilissimo.
Più che una scelta di un mestiere fu una scelta di vita.
Mi sono fatto l’idea che tutti i periodi della sua vita siano stati vissuti intensamente e collegati fra loro e che la sua ultima scelta di vita sia maturata progressivamente, un vero riassunto di tutte le precedenti esperienze di lavoro e che soprattutto la vita passata quasi in solitudine per mesi e mesi sulle montagne italiane a misurare l’evoluzione dei ghiacciai ed in altri ambienti solitari, in Paesi lontani staccati dal resto del mondo, l’Afghanistan, la Giordania, siano stati determinanti per questa decisione ed è strano che di questi periodi così particolari ed interessanti me ne abbia parlato una volta sola e quasi con riserbo come se certe impressioni, certe sensazioni fossero troppo personali, troppo intime per essere trasmesse ad altri. Penso che i lunghi rapporti avuti con una natura determinante, schiacciante, ma all’opposto anche sensibilissima agli sconvolgimenti causati dall’uomo, in aree estreme ed isolate, le frequentazioni di quegli ambienti umani senza sovrastrutture e forse più veri dei nostri, dove ognuno era in grado di procurarsi il suo, Lo abbiano indotto a credere che il nostro modello di sviluppo fosse sbagliato o perlomeno fosse da modificare e Lo abbiano spinto alle scelte successive. “E’ la terra che simile a sé l’abitator produce” per dirla con il Metastasio e non deve essere viceversa. Se non si ha più coscienza della Gea Terra, se non si ha più nessun legame con essa, coscienza dei propri limiti, non si è più nessuno, si è sradicati da tutto, anche qui da noi.
Giuseppe scelse di ritornare alla terra come nei suoi primi anni.
Egli scelse un modo di vita non per essere manifestamente contro un altro, ma per essere se stesso e per tener fede al mondo dei suoi Vecchi, a quello di Suo Padre che, giovane Presidente della Federazione degli Agricoltori della Provincia, rappresentò al massimo livello la categoria, ed a quello di Sua Madre, che rimasta vedova con tre figli di otto, sei, tre anni, seppe tenere con polso fermo l’azienda ed indirizzare i ragazzi agli studi.
Così facendo dava anche un messaggio, un vero comandamento per l’amore del Creato, per la condanna di un consumismo sfrenato e disastroso, di quell’immeritata opulenza, di quella immeritata ricchezza che, come diceva Italo Calvino “si misurano con la quantità degli sprechi che esse producono”.
Egli seguiva metodi di coltivazione biologica che escludevano l’uso dei pesticidi di sintesi, di concimi chimici, di diserbanti e che si basavano sulla restituzione alla terra di quanto non utilizzato.
Aveva fra l’altro una bella coltura biologica della prugna Santa Clara su un’area di una certa ampiezza, ottenendo un indubbio successo, infatti riforniva una esigente clientela che ricercava un prodotto genuino, privo di trattamenti, completamente maturo. I frutti venivano infatti raccolti non sulla pianta ma a terra, con costi molto limitati.
Tra l’altro riforniva una nota azienda svizzera di omogeneizzati per l’infanzia ed un’industria modenese per frutta essiccata. La scelta della varietà Santa Clara presentava l’opportunità di una maturazione più precoce di altre varietà per cui poteva sfuggire all’attacco della terza generazione di carpocapsa, la più pericolosa di questo insetto.
Anche nella vigna conseguì ottimi risultati, ed il suo Barbera fu ritenuto da una giuria presieduta dal dottor Paolo Massobrio, noto giornalista ed enologo, il migliore dei “Barbera sconosciuti”, ossia di quelli non reclamizzati, non prodotti da case di grido particolarmente importanti.
Quanto al bestiame, fu il primo in Provincia a dedicarsi all’allevamento di bovini all’aperto che solo in seguito venne praticato diffusamente.
Fin qui l’uomo di campagna. Egli però non cessò mai di seguire ogni cosa, specie il bene pubblico, anche con l’occhio dell’ingegnere. E’ difficile conciliare due mentalità così diverse, l’una che tollera l’imponderabilità, l’altra che pretende l’esattezza. Egli non tenne separate le due personalità, specie quando si trattava di essere soprattutto ingegnere. Come Cittadino, da protagonista di primissimo piano, condusse campagne in difesa del territorio e dell’ambiente con l’occhio di chi lavora la terra, che fa programmi di lunghissima durata, e la professionalità dell’ingegnere che fa i calcoli.
Anche qui non sprecare, utilizzare per le opere private e pubbliche lo spazio nei luoghi adatti, ben calcolato, senza eccessi e neanche senza sottodimensioni. Per questo richiese ed ottenne la radicale revisione del piano stradale della bretella di collegamento fra la AT-CN e la AT-TO.
Si oppose poi, se pur senza successo, all’occupazione del territorio agricolo di Variglie con le numerose case a schiera. Sempre documentatissimo, fu relatore determinante in vari dibattiti trascinando le assemblee. Seguì tutte le adunanze dei Consigli Comunali Provinciali e Regionali quando erano in discussione i vari problemi del territorio.
Ricordo il suo orrore per il viadotto della ferrovia Asti – Castagnole Lanze.
E’ stato un personaggio preminente ed amatissimo in Città. A volte si poteva non essere d’accordo al 100% sulle Sue posizioni ma non si potevano mai ignorare i suoi ragionamenti e le sue impostazioni.
Questo l’Amico ritrovato.
Asti dovrebbe ricordare questo suo cittadino benemerito, in modo duraturo, magari con la titolazione di un tratto di quella bretella stradale per la quale si era gagliardamente battuto.