di Enrico Peyretti.
In questi giorni l’aria puzza di guerra, di sangue, di bombe, di minacce, di sferragliare di armi e scalpitare di ministri. Ci scambiamo analisi su jihadisti armati e finanziati per calcoli oscuri da potenze petroliere, su stragi esibite in rete, su precedenti storici, su fondamentalismi religiosi e abusi di religione, ecc. Sapevamo già che nessuno è innocente. Nessuno ha titolo per scagliare la prima pietra. Ma le pietre, e cose ben peggiori, volano. Che fare? ...
Tutto bisogna pensare. Qualcuno immagina, sul lontano mirabile precedente di Francesco d’Assisi, che, per esempio, un notabile musulmano, un vescovo cristiano, una donna leader pacifista, vadano insieme a chiedere di fare visita agli uomini vestiti di nero, per parlare con loro, a viso aperto. Potrebbe aggiungersi un portavoce dei popoli, che sono sempre le vittime della guerra nel diritto di vivere. Se si potesse appena appena parlare, un piede sarebbe già fuori dall’inferno. Diffcile, rischioso, certamente. Forse sbloccante. Ma tutto va pensato.
E la politica? Incerta, vede impossibile l’inerzia e impossibile far guerra alla guerra. Si chiede la copertura dell’Onu, come se questa signora potesse assolvere preventivamente i sanguinosi peccati di guerra. Poi c’è anche chi esorta a non esser timidi nel far guerra, che, a parer suo, regna perennemente sulla storia ed è unica madre di tutte le cose nuove.
Una via d’uscita, l’unica che possa proseguire oltre il primo passo o l’impasse, è tornare ad imporre, ognuno a se stesso, il “non uccidere” che arriva dappertutto, dai tempi più lontani, nonostante che le guerre lo svuotino a proprio uso.
Questa regola è triste quando diventa necessario invocarla, ma è bella, come il primo umile gradino della difesa effettiva della vita, quando ci tutela, tutti. Andando al campo degli uomini neri, dovremmo dire: «Noi non vi uccidiamo. Troppo, fin dal lontano passato abbiamo ucciso, come ora fate voi. E allora vi chiediamo: uccidere, basta! Ditelo voi a noi, diciamolo insieme». Subito parleremo di vite umane, di terre, di popoli, sciogliendo l’ossessione della conquista, condividendo i tesori e il cibo che la terra ci dà. Se una maschera si aprirà, ci sarà dentro un uomo, una donna, che ha le stesse gioie e speranze e angosce di noi tutti. Se potrà rilassare lo spasimo della paura feroce, sarà una persona uguale a noi. Nella parola e nell’ascolto, pur in faticoso cammino, la guerra è fugata. Se potremo parlare, mangiare qualcosa insieme, potremmo vedere insieme ciò che è comune nelle religoni, nelle culture, ciò che è comune negli interessi.
Ma questo possiamo intanto farlo davvero, nelle nostre città multietniche: possiamo vedere nelle nostre religioni (islam e cistianesimo) che cosa hanno in comune, quali riferimenti di storia e di umanità, quali progetti di umanizzazione stanno curando, quale tessuto sociale costruiscono, e imparare così che le differenze (anche quelle che non accettiamo per noi) arricchiscono e non accaniscono. Lo stesso potremo fare delle nostre culture: letterature, musica, arti, manufatti (che sono sempre più fatti insieme). Ci sono iniziative avviate, per fare che l’abitare qui, con gli stessi problemi, sia un abitare insieme. Queste azioni sono nella possibilità di ogni cittadino, sul territorio prossimo, per integrare ghetti ed emarginazioni, che non diventino covi di risentimento e violenza.
La politica agisca a smontare quei processi storici, dalle crociate in qua, fino alle logiche di potenza di appena ieri, su quelle terre, che alimentano di semi tossici e taglienti la convivenza dei popoli.
Soprattutto, l’opinione pubblica e la politica devono ridurre drasticamente produzione, possesso, circolazione degli armamenti, che viaggiano per mano di mercanti senza coscienza, ma anche per l’azione cinica degli stati, che lo permettono per secondi fini.
Blocco delle armi, indagini sui movimenti di capitali, sorveglianza delle emittenze di messaggi bellicosi, sono cosa da fare, ma anzitutto occorrono azioni positive: comunicazione tra le culture, tra le religioni, dialogo nel quotidiano, condivisione costruttiva dei comuni problemi esistenziali.
Il mondo globalizzato non ha solo i gravi problemi della tensione fra le differenze, ma anche la bella opportunità di una umanità che avvicina tutta la varietà dei suoi colori e delle sue note: a noi fare della pericolosa frizione un concerto vivibile, un’armonia. Col tempo, ma presto.
L’opposizione alla guerra non è un’altra guerra, ma la costruzione di culture e costumi, e anche leggi, e relazioni umane, che compongano la vita di ognuno col suo vicino. Ma la riflessione continua.
Tratto da: http://www.nuovasocieta.it/rubriche/laria-puzza-di-guerra/