‘Ndrangheta: fenomeno diffuso anche in Piemonte

di Liliana Maccario, coordinamento di Libera Asti.
ImageNella relazione annuale della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa, il Relatore On. Francesco Forgione (nel capitolo VII, dedicato alle “Colonizzazioni”), insieme a  Milano e la Lombardia, la Liguria, l’Emilia Romagna fa il punto sulla presenza della ‘Ndrangheta in Piemonte con queste parole:
La presenza della 'Ndrangheta in Piemonte è preponderante rispetto alle altre organizzazioni mafiose. Secondo il coordinatore della D.D.A. di Torino “essa continua ad occupare la posizione di maggior rilevanza nel nostro distretto.”
La ‘Ndrangheta risulta stabilmente insediata nel tessuto sociale e i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza.

Come riferiscono i carabinieri del Ros nella relazione relativa al primo semestre del 2007: “in Piemonte continua a registrarsi la pervasiva presenza di gruppi criminali riconducibili alla ‘ndrangheta, prevalentemente concentrati nel capoluogo e nella provincia torinese.” Ogni gruppo mafioso, pur operando in autonomia, intrattiene rapporti con gli altri gruppi dislocati nella stessa area e in quelle dell’intera regione.

Secondo la D.N.A., “la ‘Ndrangheta, in Piemonte, è presente nel settore del traffico internazionale di sostanze stupefacenti, nel riciclaggio e nell’infiltrazione nel settore dell’edilizia, grazie anche ad una rete di sostegno e copertura di singole amministrazioni locali compiacenti. Il progressivo radicamento nella regione ha favorito la loro graduale infiltrazione del tessuto economico locale, mediante investimenti in attività imprenditoriali ed il tentativo di condizionamento degli apparati della pubblica amministrazione, funzionali al controllo di pubblici appalti. Appare quest’ultimo, in sostanza, il nuovo settore d’interesse, condotto attraverso attività più difficili da investigare perché riconducibili all’area apparentemente legale dell’economia ma che nasconde, in realtà, reati come il riciclaggio, la corruzione, l’estorsione, la concorrenza illecita e così via. Sotto tale profilo risultano particolarmente sensibili all’infiltrazione mafiosa i comparti commerciali, degli autotrasporti ed immobiliari. Ad essi si aggiunge quello dell’edilizia che consente, attraverso imprese operanti soprattutto in lavorazioni a bassa tecnologia, di condizionare il locale mercato degli appalti pubblici. Le aree di criticità maggiore sono quelle della Valle d’Aosta, della Val di Susa e della città di Torino, come viene evidenziato dalle indagini giudiziarie in corso”.

I soggetti appartenenti alla ‘Ndrangheta o comunque ad essa riconducibili, mantengono stretti legami con le famiglie mafiose d’origine. Questo però non impedisce a chi opera nel territorio piemontese di avere una certa libertà di movimento e di poter intrattenere rapporti di collaborazione nell’ambito delle attività criminali poste in essere con altre cosche di diversa provenienza che operano anche esse in Piemonte. Per far questo, non devono chiedere l’autorizzazione alla cosca alla quale fanno capo in Calabria. Stretti rapporti sì, ma anche autonomia nella gestione della struttura mafiosa, in modo da poterla adattare alle esigenze del territorio nel quale svolge la propria attività criminale.

Bisogna dire che l’azione di contrasto delle forze di Polizia e della Magistratura ha prodotto negli anni ’90 importanti risultati, senza però riuscire ad estirpare dal territorio piemontese le ‘ndrine che, a distanza di qualche anno dall’azione repressiva, si sono ricompattate, cambiando strategia e facendo emergere nuovi personaggi di elevato spessore criminale e una nuova generazione di capi, figli dei vecchi boss.
Si può affermare che lo storico e stabile radicamento della ‘ndrangheta sul territorio piemontese ha fatto di essa una componente, ovviamente marginale ma non trascurabile, del tessuto sociale ed economico della regione.

Le principali cosche operanti in Piemonte sono: i Pesce-Bellocco, i Marando-Agresta-Trimboli, che fanno parte della cosca Barbaro di Platì, gli Ursini e i Mazzaferro di Gioiosa Ionica, i Morabito-Bruzzaniti-Palamara di Africo. Tutte cosche importanti della provincia di Reggio Calabria, alle quali si sono affiancate le vibonesi dei Mancuso di Limbadi, dei De Fina e degli Arono di Sant’Onofrio.
Anche il controllo del mercato della droga, provoca conflitti come ha dimostrato l’omicidio di Rocco Femia, avvenuto il 3 febbraio 2007.

Nuovo è il collegamento tra gruppi mafiosi calabresi ed un’organizzazione transnazionale bulgara, operante in diversi paesi europei e dedita all’importazione di notevoli quantità di droga dal Sud America, servendosi di imbarcazioni guidate da esponenti della malavita italiana, più specificatamente calabrese.
La questione preoccupa, perché l’indagine ha messo in luce l’esistenza di un’alleanza sinergica nel campo del narcotraffico tra organizzazioni mafiose italiane e straniere. E’ una delle prime volte che emerge un rapporto del genere.

Le penetrazioni negli apparati della Pubblica Amministrazione anche in Piemonte, rappresentano uno dei canali privilegiati della criminalità mafiosa per allargare il campo delle sue redditizie attività.
Il progressivo radicamento nella regione – scrive nella relazione la D.N.A. – ha favorito la loro graduale infiltrazione del tessuto economico locale, mediante investimenti in attività imprenditoriali ed il tentativo di condizionamento degli apparati della pubblica amministrazione funzionali al controllo di pubblici appalti. Appare quest’ultimo, in sostanza, il nuovo settore d’interesse, condotto attraverso attività più difficili da investigare perché riconducibili all’area apparentemente legale dell’economia, ma che nasconde in realtà reati come il riciclaggio, la corruzione, l’estorsione, la concorrenza sleale e così via.”. Questo è quanto hanno accertato gli investigatori in un’indagine denominata “Magna Charta”.

Del resto è in Piemonte il primo e l’unico comune del Nord, Bardonecchia, sciolto per infiltrazione mafiosa.
La cosca egemone sul territorio, la famiglia dei Belfiore, originaria di Gioiosa Ionica, fu responsabile dell’assassinio del procuratore della repubblica di Torino, Bruno Caccia, il 16 giugno 1983. Per l’omicidio è condannato all’ergastolo Domenico Belfiore e nel 2007 i beni della famiglia, tre anni dopo la confisca da parte dello Stato, sono stati assegnati ad uso sociale.”

Le affermazioni della Commissione hanno suscitato reazioni nel mondo politico e dell’amministrazione locale.
Il  Sindaco di Torino  Sergio Chiamparino ha dichiarato: «In sette anni di governo, non ci sono mai stati segnalati episodi sospetti negli appalti e nei lavori pubblici. Non ci sono tracce di infiltrazioni mafiose in città. Valuteremo con attenzione le conclusioni dell’Antimafia. Ma sono tesi, queste, che respingiamo con sdegno». Ed ancora "mi sento diffamato come Amministratore Pubblico e come cittadino".
Il Presidente della Provincia di Torino Antonio Saitta: "La descrizione che emerge da questa relazione all’Antimafia è gravissima e danneggia l’immagine della pubblica amministrazione
".
La Presidente della Regione Piemonte Mercedes Bresso: Voglio approfondire, capire bene il dettaglio delle denunce per verificare quanto c’è di vero e quanto fa parte della verità o di una ricostruzione, non dico fantasiosa, ma poco legata con la realtà.
Il capogruppo di An al Comune di Torino, Agostino Ghiglia chiede al Sindaco di difendere Torino dall’attacco della Commissione e di querelare i responsabili”.
Queste le reazioni di chi forse dimentica - o non sa - che  la relazione riporta fedelmente le parole della Direzione distrettuale antimafia, quindi è frutto di indagini delle autorità competenti.
Indagini che, hanno significativamente portato, con l’applicazione della legge 109/96  alla confisca dei beni in Piemonte di questa e di altre organizzazioni mafiose, beni in parte già destinati, come prevede la stessa legge, al recupero per scopi sociali.

La Direzione investigativa antimafia ha calcolato che tra il 1992 e il 2006 alle mafie sono stati sequestrati beni per 4,3 miliardi, mentre il valore delle confische è stato di 744 milioni.
Si tratta, però, di un conteggio di investigatori e magistratura realizzato a valori storici. In realtà, il patrimonio sottratto al crimine organizzato vale molto di più, almeno dieci volte tanto: circa 40 miliardi i sequestri, 7 miliardi le confische. I beni confiscati sono 7.328, di cui 3.372 destinati. Nell’83% dei casi il patrimonio si trova nelle quattro regioni meridionali (45% in Sicilia, soprattutto Palermo).
Ma dare una destinazione non è facile: riesce solo con il 18% dei beni. Il resto è afflitto da abusivismi, illegalità, abbandono. La procedura, finora, ha previsto che parte dei beni rimanga ai Comuni, mentre il resto venga gestito soprattutto dal network Libera (1.200 associazioni), che ha affidato a Daniele Pati il coordinamento del capitolo confische.

Nella geografia dei beni espropriati è, appunto, alla Sicilia che spetta il primato.
A Trapani, la Calcestruzzi Ericina, sottratta al capo mandamento Vincenzo Virga e tuttora attiva in attesa di essere assegnata a una cooperativa; a San Cipirello nel comune di Monreale, la cantina sociale Kaggio, confiscata a Giovanni Brusca e Riina (che a Corleone ha visto anche trasformare una sua villa in scuola); come a Partinico (Palermo) i fabbricati sono oggi colonia estiva per bambini; a San Giuseppe Jato (Palermo), il terreno un tempo di Enzo Salvatore Brusca, dove è stato ucciso Giuseppe Di Matteo (figlio del pentito Santino), è ora giardino comunale e luogo di formazione alla legalità; nella medesima località, i terreni di cui erano proprietari Riina e Bernardo Provenzano, sono gestiti dalla cooperativa Placido Rizzotto. Qui su cento ettari si coltivano vigneti dai quali si produce vino bianco e rosso, tutto prenotato molto prima della vendemmia.
In Piemonte, a Volpiano una cascina confiscata è sede dei vigili del fuoco e nucleo cinofilo; a Volvera un’altra cascina sottratta a Vincenzo Riggio è gestita dall’Associazione per l’educazione alla legalità, che la sta bonificando dall’amianto; un appartamento ancora di Riggio (fino a poco tempo fa ha continuato a viverci la moglie) è in mano alla Caritas.
Ma c’è anche Cosa nostra: a Moncalvo d’Asti ancora una cascina, confiscata al trapanese Francesco Pace, braccio destro di Vincenzo Virga, è stata destinata a centro per donne tossicodipendenti.
Uno dei più rilevanti patrimoni confiscati nel Nord si trova, però, a San Sebastiano da Po, di nuovo nel torinese. A Domenico Belfiore, uomo dei Piromalli, l’esproprio ha riguardato un immobile di circa mille metri quadrati (oltre a 10 mila di terreno). Ancora fino a metà maggio 2007 la famiglia Belfiore è riuscita a rimanere nella struttura, che oggi è presidiata dall’Associazione comunità famiglia, legata al gruppo Abele, che ha inserito cinque nuclei familiari.

Don Luigi Ciotti, presidente di Libera commenta: “La 109/96 è una legge che ha disturbato notevolmente i mafiosi  perché li ha toccati nel portafoglio, che per loro è un segno di potere, di forza. Oggi la farina, la pasta, l'olio, il vino, i ceci, i fichi d'India, i pomodori e la passata (prodotti non solo più in terra di Sicilia o nel Corleonese ma anche in altri capoluoghi di provincia, in Calabria, in Puglia come anche nel nord dell'Italia), rappresentano un segno di liberazione a quel potere mafioso. Non mancano, purtroppo, gli elementi di preoccupazione: lo Stato non sembra più in grado di “scovare” i beni dei mafiosi. Infatti, dal “picco” del biennio 2000-2001 con quasi 1000 confische effettuate ogni anno, si è precipitati alle 374 confische del 2004 e alle 161 registrate fino a ottobre 2005. In questi ultimi anni si è assistito a delle scelte discutibili, come quella di affidare all’Agenzia del Demanio l’intera gestione dei beni, dal sequestro alla confisca. E i tentativi di stravolgere la normativa sulla confisca dei beni, fortunatamente falliti, come la proposta di legge delega che prevedeva la possibilità di richiedere la revoca dei provvedimenti definitivi di confisca, senza limiti di tempo. In occasione del decennale della legge 109/96, Libera rilancia una proposta di riforma autentica della normativa sulla gestione dei beni sottratti alle mafie. Il nostro sogno - conclude Ciotti - è che sia normale riutilizzare socialmente i beni confiscati alle mafie. Non deve essere un fatto straordinario. Per questo chiediamo un'Agenzia ad hoc. Una struttura con personale e mezzi adeguati alla complessità della sfida lanciata dieci anni fa: sottrarre alle mafie le ricchezze accumulate illegalmente e trasformate in altrettanti segno concreti di ripristino della legalità, di giustizia sociale e di lavoro pulito.”

L’importanza del riutilizzo dei beni per scopi sociali non ha lasciato indifferente gli amministratori piemontesi. Il Consiglio regionale, il 5 giugno 2007, ha approvato all'unanimità con la legge 14 (“Interventi in favore della prevenzione della criminalità e istituzione della Giornata regionale della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime delle mafie), la destinazione di fondi per la realizzazione dei progetti di recupero dei beni confiscati ai mafiosi. Il 29 gennaio 2008 è stata approvata la delibera con cui si rende attuativa la legge, attraverso la definizione del regolamento.

E’ certo che una parte dei fondi regionali saranno destinati al recupero del bene confiscato in Frazione  Santa Maria di Moncalvo, una vecchia casa colonica con otto ettari di terreno, in gran parte coltivato a vigneto. La cascina, che dalla sommità di una collina  della  frazione Santa Maria domina la valle verso Grazzano Badoglio e Penango, era proprietà di Francesco Pace, un siciliano originario di Paceco (TR). La proprietà era stata confiscata dal tribunale di Trapani, a seguito di una condanna per reati di mafia.
Il progetto “Rinascita donne” nato dal protocollo d’intesa tra Prefettura e Provincia di Asti, i Comuni di Asti e Moncalvo, il CO.GE.SA:, l’Associazione Rinascita, il Gruppo Abele di Torino, Libera “Associazioni nomi e numeri contro le mafie”, la Consigliera di Parità della Provincia di Asti, le ASL 19 e 20, il Dipartimento di Ricerca Sociale e l’Università del Piemonte Orientale di Alessandria prevede di realizzare una comunità terapeutica per donne con problemi di dipendenza, un centro studi e formazione per la promozione della cultura della legalità e del territorio, un polo per lo sviluppo di attività lavorative agricole e commerciali che produca occupazione per le persone e il territorio, una cooperativa sociale.

Le indagini, la legge sulla confisca, il faticoso iter per il recupero possono non bastare; a noi Cittadini, Pubblici Amministratori, Politici, il compito di “stare svegli!”, come dice Don Ciotti.

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