di Vincenzo Comito.
Il governo Meloni sta lanciando un nuovo piano di privatizzazioni, da Eni a Poste. Lecito e opportuno è fare un bilancio di ciò che è stato fatto da trent’anni a questa parte. Si scoprono così le tappe della dismissione della grande impresa, quella pubblica e quella privata...
L'economia italiana, almeno a guardare ai numeri del Pil, è ferma in sostanza da più di una trentina d’anni. Uno degli aspetti più rilevanti delle difficoltà ancora oggi in atto è certamente rappresentato dalla pluridecennale crisi delle grandi imprese, pubbliche e private.
La situazione delle residue grandi società è in via di ulteriore deterioramento. I casi della fuga della proprietà della ex-Fiat verso lidi transalpini, dopo un lento degrado della situazione, i guai lontani e recenti di Telecom Italia/Tim, di Ita ex-Alitalia, dell’ex-Ilva, non cessano di far disperare chi ha in qualche modo a cuore i fragili destini economici del nostro Paese, mentre la sorte di Autostrade, dopo tanti problemi, sembra ora in via di miglioramento; questo, con il ritorno del controllo pubblico ma a costo, come al solito, di grandi oneri per lo Stato, non solo per il riacquisto del controllo del gruppo, fatto come sempre in maniera finanziariamente generosa, ma anche per le enormi spese legate alle grandi opere di manutenzione necessarie dopo che i privati avevano lasciato correre così a lungo la situazione verso il degrado.
Le sciagurate privatizzazioni e il resto
Ma partiamo un poco da lontano. Si può con una certa tranquillità affermare che i governi di centro-sinistra che si sono succeduti non hanno dato in generale una eccezionale prova di sé e non sembrano avere ottenuto risultati molto più significativi di quelli di altro colore che sono venuti dopo. E questo non può che rattristare i molti che avevano riposto grandi speranze in un rinnovamento dell’economia e della società italiana.
Una delle aree nella quale essi hanno dato i risultati peggiori è stata certamente quella delle privatizzazioni delle grandi imprese a suo tempo controllate dalla mano pubblica. Tra le attenuanti generiche che si possono riconoscere ai vari Prodi, D’Alema, Amato, Ciampi, Draghi, che si sono in qualche modo occupati a vario titolo delle questione, si può avanzare la constatazione delle forti pressioni ricevute da Bruxelles e dagli ambienti finanziari internazionali, pressioni che hanno ricevuto orecchie molto pronte all’ascolto. Vero è che la situazione di alcune imprese si stava degradando, ma si poteva cercare di intervenire per migliorare la situazione.
Intanto il numero delle grandi imprese private, che nel nostro Paese non era certo rilevante già nei primi anni Settanta in confronto agli altri Paesi europei, si è progressivamente assottigliato, mentre quel che oggi resta si trova, almeno in parte, in difficoltà.
Ricordiamo che è nelle grandi imprese, pubbliche e private, che si concentrano l’occupazione qualificata e stabile, in misura quantitativamente molto rilevante, il know-how delle organizzazioni complesse, le spese di ricerca e sviluppo e più in generale la gestione delle grandi tecnologie innovative. E in effetti da quando le grandi imprese, pubbliche e private, hanno cominciato a soffrire l’economia italiana ha cominciato a perdere colpi in maniera sostanziale.
La cronaca puntuale del disastro della politica delle privatizzazioni si può ritrovare nel volume pubblicato di recente da due co-protagonisti di tale processo, in cui avevano a suo tempo creduto come leva per il rinnovamento dell’economia italiana e che oggi si ritrovano a farne il triste e sommamente negativo bilancio. Si tratta del volume di Pietro Modiano e Marco Onado significativamente intitolato Illusioni perdute (Il Mulino, Bologna, 2023).
Si sono salvate da questo naufragio solo alcune delle imprese già dell’Iri, la cui privatizzazione non è stata per fortuna completa e che hanno mantenuto un nucleo proprietario in mano pubblica. Parliamo di società quali Enel, Eni, Finmeccanica-Leonardo, Fincantieri, ma anche Poste e Ferrovie. Ancora oggi tale gruppi rappresentano una base importante per possibili politiche di respiro anche a livello internazionale.
Dobbiamo rilevare incidentalmente che tali imprese non sembrano ricevere oggi una grande capacità di indirizzo strategico da parte del potere pubblico, che non esprime una coerente linea di condotta. Si guardi in particolare ai percorsi del tutto antitetici che negli ultimi anni stavano perseguendo Eni ed Enel, pur operanti ambedue nello stesso campo, quello dell’energia. Parallelamente un’impresa come Finmeccanica-Leonardo ha progressivamente abbandonato i suoi business civili per concentrarsi sempre più su quelli militari.
Sul fronte privato abbiamo parallelamente assistito al tracollo dell’Olivetti e al forte ridimensionamento di quella che una volta erano la Montedison (resta oggi una Edison in mano ai francesi e qualche attività chimica passata ad Eni) con il parallelo crollo del gruppo Ferruzzi e di Pirelli (che ha abbandonato nel tempo il business dei cavi e quello dei prodotti in gomma, riducendo fortemente il suo fatturato), mentre un discorso a parte merita Fiat, la più importante di tutte.
Sul fronte pubblico ricordiamo brevemente i disastri di Telecom, Alitalia, Ilva, Autostrade.
Hanno contribuito alla crisi della grande impresa gli imprenditori privati, con le loro scelte a vario titolo sbagliate (ricordiamo a questo proposito il rifiuto assoluto di Marchionne ad possibile impegno nell’auto elettrica), frutto di una cultura imprenditoriale individualistica, mirata a orizzonti brevi, pronta a fuggire appena possibile verso i lidi della finanza e dei paradisi fiscali, mentre si verificavano maldestri tentativi di acquisizione di attività estere, da Axa a Continental, dalla Société Générale de Belgique a Valeo: tentativi che hanno coperto di ridicolo i nostri strateghi finanziari. Vanno poi ricordate le colpe del settore finanziario, le cui risorse non sono state dirette a sostenere le attività e le imprese meritevoli (segnaliamo il caso di Mediobanca, che aiutava le grandi famiglie a mantenere il controllo di alcuni grandi gruppi e non le attività delle imprese sottostanti, con il risultato che alla fine è crollato tutto). Infine non vanno trascurate le politiche pubbliche, anch’esse, ad essere benevoli, a ben guardare con lo sguardo miope: molto aperte ad esempio a salvare aziende marginali come Motta e Alemagna, ma ostili a farlo per un’eccellenza come Olivetti.
Siamo di fronte al fallimento totale di una classe dirigente economica e politica.
Gli sviluppi recenti di alcuni casi
Lasciamo da parte i casi di Autostrade d’Italia, di Alitalia e altri minori sul fronte pubblico, di Montedison-Ferruzzi, Olivetti, Pirelli su quello privato e concentriamoci sui tre più importanti, due ex-pubblici (Telecom Italia e Ilva) e uno privato (Fiat); le loro cronache recenti riempiono le pagine dei giornali.
-Telecom Italia
I casi certamente più disperanti sul fronte pubblico, per la loro rilevanza generale, sono stati quelli di Telecom Italia e dell’ex Ilva.
Per quanto riguarda la prima, era una delle più importanti società di telecom d’Europa, in rilevante espansione, con adeguati livelli di investimenti produttivi e di spese in ricerca e sviluppo. Con la privatizzazione si alterneranno brevemente al comando, in un giro vorticoso, gli Agnelli, Colaninno e i cosiddetti “capitali coraggiosi” che avrebbero dovuto essere l’avanguardia di una nuova classe imprenditoriale, poi Tronchetti Provera. Colaninno e Tronchetti Provera scaricheranno i debiti fatti per l’acquisizione sulla stessa società acquisita, mentre si ridurranno gli investimenti e le spese di ricerca e sviluppo, mentre la società crollerà presto in Borsa. Poi verrà la francese Vivendi e infine assistiamo oggi al sostanziale smembramento del gruppo con la malaugurata cessione per 22 miliardi di euro della rete agli americani del fondo Kkr.
Si tratta di un fatto gravissimo, anche perché attraverso la rete circolano le informazioni pubbliche e private, comprese quelle più riservate e strategiche. Resta al momento la società di servizi – Tim – che staccata dalla rete, caso unico nel panorama delle società di telecomunicazioni europee, si troverà a dover affrontare una concorrenza che in Europa è molto forte (negli Stati Uniti abbiamo tre soli operatori nel settore, in Europa circa cento). Si può facilmente prevedere che da sola Tim difficilmente ce la farà ad esprimere qualcosa di rilevante. Un destino non certo brillante attenderà anche i lavoratori delle due entità, soggetti ora ad un rilevante, inevitabile e pesante taglio degli organici, taglio che sarà accelerato anche dalle forti trasformazioni tecnologiche in atto (Calabrone, 2023). Naturalmente, supponiamo che a sopportarne il peso saranno in gran parte i soldi pubblici.
-L’Ilva
Ricordiamo come la più grande acciaieria d’Europa, con gli altri impianti collegati, è stata ceduta alla famiglia Riva nel 1995. Questi privati hanno sfruttato al massimo la capacità di generazione di cassa dell’impianto, riducendo fortemente gli investimenti e i rinnovamenti tecnologici, degradando anche la situazione dei lavoratori. I Riva sono stati fermati dalla magistratura nel 2012 con il procedimento per disastro ambientale, al quale hanno risposto con la fuga di capitali all’estero ed evasione fiscale. Un bel risultato. Da allora la situazione dello stabilimento tarantino è rimasta sostanzialmente ferma, con una progressiva riduzione della produzione. Come è noto, nel 2016 sono intervenuti gli indiani di Arcelor-Mittal, presumibilmente con l’obiettivo di ridimensionare un concorrente importante. Infatti nel 2021 hanno ritirato il management, deconsolidando la loro partecipazione ma abbandonando nella sostanza l’azienda al suo destino (Bricco, 2024); potrebbe aver influito nella loro decisione anche il comportamento del governo di allora.
Appare ora chiaro che dovrà essere lo Stato a farsi carico della ricapitalizzazione dell’azienda, forse per 1 miliardo, liquidando gli indiani con qualche centinaio di milioni di euro e assumendo direttamente il gravoso compito dell’abbattimento dei livelli di inquinamento, che dovrebbe costare, azzardiamo una cifra, intorno ai cinque miliardi. Tutto ciò è successo mentre i diecimila lavoratori del complesso, senza contare quelli dell’indotto, attendono ancora, esasperati, di conoscere la loro sorte, mentre anche la cittadinanza attende, sempre più disperata, che ci si decida a fare qualcosa per annullare i problemi ambientali. Intanto il governo appare diviso al suo interno e senza alcuna idea sul che fare. Il rischio, come al solito, è quello che, risanata l’azienda a spese dell’operatore pubblico, la si cederà poi per poco ai privati (De Pascale, 2024). Si fanno anche i nomi dei possibili attori di una nuova privatizzazione dell’impianto: Mercegaglia, Arvedi, Gozzi, Danieli, l’ucraina Metinvest, già intervenuta a Piombino, ma nessuno certamente sembra avere risorse adeguate e comunque la voglia per intervenire da subito. Aspetteranno che l’impianto sia ripulito, o, in alternativa, parteciperanno da subito, ma mettendo solo le briciole.
Intanto, come ha scritto qualcuno, l’acciaio è necessario e il futuro del Paese passa da Taranto.
-La Fiat
E veniamo a quella che era di gran lunga la più importante impresa italiana, ora ridotta con i suoi impianti ad essere una filiale solo relativamente importante di un gruppo francese. L’Italia, alcuni decenni fa, grazie alla Fiat, aveva il secondo produttore di auto d’Europa, dietro la Volkswagen, mentre oggi, a livello di Paese, siamo soltanto al settimo-ottavo posto in Europa. Negli anni Novanta si producevano da noi 1,7 milioni di veicoli all’anno, mentre nel 2016 eravamo ancora ad un milione di pezzi e poi, con un calo progressivo, siamo scesi nel 2022 a 686.000 unità, anche se nel 2023 si registra un incremento del 9%.
Oggi gli impianti italiani lavorano con volumi di produzione al di sotto del 50% della loro capacità, mantenendo livelli di occupazione rilevanti, anche se in continua riduzione (siamo a meno 11 mila occupati nell’ultimo triennio) soltanto grazie alla cassa integrazione e ad altre provvidenze pubbliche. Una situazione che si trascina ormai da circa 17 anni. Ci sono poi i posti di lavoro perduti nell’indotto. Ora il gruppo vuole incentivare un altro grande esodo di addetti. Un’altra strage.
Si è venduto il controllo della società ai francesi in sordina, senza che la stampa, i partiti e gli stessi sindacati facessero molto rumore.
Scelte sbagliate, stanchezza della proprietà per un business certamente difficile, mancanza di un management adeguato, spiegano, almeno in parte, la decisione.
Del gruppo Agnelli resta ancora, tra le grandi imprese, l’Iveco, peraltro troppo piccola per reggere la concorrenza degli altri colossi europei (le dimensioni del gruppo Mercedes in questo settore sono di molte volte più grandi). Anche in questo caso la proprietà vorrebbe apparentemente disfarsene, ma un tentativo di vendere ai cinesi, che avevano tutta l’intenzione e le risorse per rilanciarla, è stato bloccato dal governo. Il suo futuro appare dunque molto incerto.
Conclusioni
In questi ultimi decenni sono emerse un numero limitato di nuove grandi imprese; possiamo inserire nell’elenco Ferrero, STM, WeBuild, Essilor. Certo: qualcosa, ma niente di impressionante: le loro dimensioni sono relativamente contenute, il loro numero ancora esiguo. La società di costruzioni WeBuild sembra crescere in Italia soprattutto per il rapporto privilegiato con il governo, mente Stm e Essilor sono in condominio con i francesi. Nelle classifiche annuali della rivista Fortune, il numero delle società italiane presenti nell’elenco delle prime 500 imprese mondiali, classificate per fatturato, appare veramente misero e minore anche di quello di Paesi come la Spagna, la Svizzera o l’Olanda.
E il governo Meloni, che sembra obbligato obtorto collo a rinazionalizzare l’Ilva, intanto parla di un nuovo piano di privatizzazioni.
Testi citati nell’articolo
-Bricco P., Interregno senza guida il rischio più grande, Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2024
-Calabrone J., Tim, la disfatta, www.contropiano.org, 18 dicembre 2023
-De Pascale D., Il salvataggio Ilva? Troppo costoso, privati alla finestra, Domani, 13 gennaio 2024
-Riva G., La distruzione silenziosa della Fiat, L’Espresso, 30 novembre 2023
Tratto da: https://sbilanciamoci.info/la-lunga-agonia-della-grande-impresa-italiana/