di Massimo De Angelis.
Siamo sconvolti da problemi enormi tra disuguaglianze crescenti e povertà? È una questione di efficienza del lavoro. Siamo minacciati dall’ecatombe climatica? Basta aumentare l’efficienza energetica. La scuola e la sanità affannano per mancanza di finanziamenti e tagli continui? Occorre trovare i modi per aumentare l’efficienza di studenti e insegnanti, medici e infermieri. L’efficienza è la panacea di tutti i problemi. Poco male se significa anche tagliare i tempi delle manutenzioni, ad esempio, dei binari dei treni, come ricorda quanto accaduto a Brandizzo. E poco male se misurare tutto in termini di efficienza induce prima di tutto a naturalizzare la corsa continua richiesta dall’economia, dove siamo messi in continua competizione con gli altri...
Eppure l’efficienza è solo un rapporto tra il prodotto di una certa cooperazione sociale e i mezzi necessari alla produzione. Quello che fa la differenza non è inseguire l’efficienza, ma considerare il contesto, l’ecologia di relazioni sociali dentro cui opera. “La grande sfida che abbiamo davanti, è ricreare l’ecologia di rapporti della nostra cooperazione sociale, riconfigurare i bisogni e i desideri, incontrarci, lottare… – scrive Massimo De Angelis -, rigenerare la nostra forma di vita collettiva, il nostro comune….”
“Sono convinto che c’è un sistema che va cambiato, così non funziona. Perché questo sistema è anche il sistema che taglia i tempi con cui fai le manutenzioni. Perché c’è un protocollo e non sempre viene rispettato? Perché se dieci anni fa per cambiare dieci metri di binario i tempi erano sei ore, oggi i binari son sempre quelli, la tecnologia è sempre quella, ma i tempi che vengono dati sono due ore. E se l’azienda non rispetta quei tempi, per ogni minuto deve pagare una penale: questa cosa mette una pressione su quelli che lavorano… E allora io dico banalmente che questa logica dell’efficienza sulla pelle di chi lavora non sia più assolutamente accettabile…” (raiplay.it). Così Maurizio Landini, il segretario generale della CGIL, commenta la tragedia di Brandizzo, il piccolo comune torinese dove alle 23:49 di mercoledì 30 agosto un treno in trasferimento, che viaggiava a 160 chilometri orari, ha travolto e ucciso cinque operai che stavano lavorando alla manutenzione dei binari.
La tragedia di Brandizzo si colloca dentro un quadro sconcertante sugli infortuni del lavoro in Italia. I dati sugli infortuni pubblicati dall’INAIL riscontrano che da gennaio a luglio 2023 il bilancio delle morti sul lavoro è ancora drammatico: sono 559 le vittime. Negli ultimi vent’anni in Italia ci sono state oltre 26.000 vittime sul lavoro. (pagellapolitica.it.) Tra il 2002 e il 2021 l’andamento del numero di morti sul lavoro è stato comunque altalenante: il minimo è stato toccato nel 2009, quando si sono registrati 1.068 morti, mentre il picco è stato raggiunto nel 2020, durante la pandemia da Covid-19, quando il numero di vittime sul lavoro è stato pari a 1.695. 26.000 diviso venti fanno una media di 1.300 morti all’anno. Per comparazione, negli ultimi cinquant’anni (1970-2019) frane e inondazioni hanno causato 1.670 morti, oltre ai sessanta dispersi, 1.935 feriti e più di 320 mila evacuati e senzatetto (greenpeace.org.) Dato lo stato delle cose della politica contemporanea sul cambiamento climatico questi ahimè sono destinati ad aumentare, ma i dati sugli infortuni sul lavoro forniscono una chiara indicazione della gravità della situazione. Ma non è qui mia intenzione soffermarmi a fondo su questa questione, solo enunciarne il problema, e sottolineare come esso sia un esempio specifico del costo umano di un ordine del mondo che mette la misura delle cose che si basa sul profitto sopra la misura delle cose che si basa sulla vita e la dignità.
In questo conflitto tra necessità dell’economia e quelle della vita, si insinua come per incanto un concetto che si è voluto intendere come panacea per tutti i mali, e tiene insieme, con effetti deleteri, i due opposti dell’accumulazione e della vita. Stiamo parlando del concetto di efficienza e della materialità dei processi che attraversano i nostri corpi tramite la sua ricerca forsennata nel nostro mondo.
Un concetto o una pratica?
L’efficienza, che è un concetto ma anche pratica sui nostri corpi, tiene insieme le priorità della vita e le priorità dell’accumulazione, mettendo queste ultime sopra le altre, rendendole più importanti. Misurare tutto in termini di efficienza, ci induce prima di tutto a naturalizzare la corsa continua richiesta dall’economia, dove siamo messi in continua competizione gli uni contro gli altri in gran parte degli ambiti della cooperazione sociale. Naturalizzare la corsa e l’affanno quotidiano vuol dire riconoscere il suo carattere necessario perché le riproduzione delle nostre vite dipende in questo mondo dai mezzi di sussistenza che ci fornisce il mercato, ed essere sempre più “efficienti” è il mezzo per cercare di sopravvivere dentro il mercato. Ma vuol dire anche confinare il nostro immaginario per il cambiamento, per un’altra vita, vuol dire anche confinare gli orizzonti dentro i quali percepiamo il senso del nostro destino comune e delle nostre possibilità collettive.
L’efficienza di cui parla Landini è l’efficienza che si ottiene aumentando l’intensità del lavoro, quella per la quale occorre spremere di più i lavoratori in un dato tempo per produrre di più, cioè ridurre le pause, ridurre i momenti di convivialità, aumentare la precarietà, e in generale subordinare alla logica del profitto l’efficacia dell’azione umana, cioè non solo il conseguimento di un dato prodotto ma anche il benessere delle vite dei lavoratori e del rispetto dell’ambiente. Ma maggiore efficienza può anche essere ottenuta attraverso l’introduzione di tecnologia, di macchine più produttive o attraverso una modifica dell’organizzazione del lavoro. In entrambi i casi, la ricerca forsennata dell’efficienza, dentro la forma dominante della cooperazione sociale, riproduce le crisi della riproduzione sociale come crisi croniche.
Ma cos’è l’efficienza? L’efficienza è uno Zelig. Come nell’omonimo film di Woody Allen, una commedia del 1983 che racconta la storia di Leonard Zelig, un uomo con una straordinaria abilità di adattarsi e mimetizzarsi con chiunque lo circondi. Così è l’efficienza, che prende significato diverso a seconda dell’ambiente, del contesto in cui essa si persegue.
L’efficienza infatti, come tutte le cose umane, non è né un male né un bene, e se sia una cosa o l’altra molto dipende dal contesto nella quale è utilizzata e le finalità per la quale è perseguita. L’efficienza è solo un rapporto tra il prodotto di una certa cooperazione sociale e i mezzi necessari alla produzione: per esempio la quantità prodotta diviso ore lavorate (che ci da la produttività del lavoro), o prodotto diviso energia impiegata (in quest’ultimo caso efficienza energetica). Se aumenta l’efficienza generalmente tutti festeggiano, una data ora di lavoro diventa più produttiva di cose e un litro di benzina ci fa fare più chilometri. Ma la festa in genere finisce nel momento in cominciamo a considerare gli effetti circolari di tale aumento. La cosa importante è capire che questi effetti non sono dovuti tanto all’aumento o alla diminuzione di efficienza, ma al contesto, all’ecologia di relazioni sociali dentro cui tale aumento o diminuzione di efficienza opera.
L’efficienza e il controllo dei suoi benefici
Per esempio, al livello della materialità della vita e dell’utilità delle cose, dentro il livello della vita quotidiana e dell’ordinaria amministrazione che facciamo delle cose, un aumento di efficienza si può ancora ricondurre razionalmente a un miglioramento delle condizioni di vita. Dopo tutto se per esempio aumenta la produttività del mio lavoro domestico grazie a una lavatrice che uso al posto di lavare a mano o a una nuova ingegnosa lavastoviglie, posso, a parità di altre condizioni, impiegare meno tempo per esempio a lavare gli stessi panni o gli stessi piatti, posso accedere a più spazi di vita non lavorativa, posso “zuzzurellare”, ho più tempo per andare con gli amici al bar, a leggere un libro, ho più tempo per partecipare alla vita della comunità o per l’impegno sociale e politico. Se aumenta l’efficienza energetica, posso inquinare di meno per lo stesso prodotto, far più chilometri con un pieno, o spendere i soldi risparmiati dal mio nuovo impianto solare in qualcos’altro. Tutto questo è ovvio, ma si applica dentro un’economia domestica o di comunità nella quale ho qualche controllo sulle sue operazioni e sulla destinazione del tempo liberato dal lavoro. A meno che chiaramente, tale liberazione dal lavoro non sia ricollocata dal sistema economico che spinge attraverso, tra l’altro, la pressione pubblicitaria al soddisfacimento indiscriminato di bisogni non essenziali, alieno da ideali, programmi, propositi di vita anche collettiva.
La cosa è assai diversa se l’aumento o diminuzione di efficienza avviene dentro un ambito dentro il quale non ho potere sui benefici prodotti dall’efficienza. Questo è i livello dell’economia capitalistica odierna, dove questa corrispondenza tra aumento dell’efficienza e distribuzione dei suoi benefici è al di fuori del nostro controllo immediato, o di quello dei lavoratori associati. In questo ambito, l’aumento dell’efficienza si traduce in riduzione del costo di produzione per l’azienda, che a sua volta si traduce in vantaggio competitivo nei confronti di altri produttori dentro l’ecologia di mercato. L’aumento dell’efficienza permette di aumentare quote di mercato e profittabilità. In questo ambito, l’aumento di efficienza in un azienda è un arma contro i propri lavoratori, e contro i lavoratori di altre aziende. E qui, l’efficienza libera lavoro sicuramente, ma lo libera nella sua forma capitalistica, cioè lo libera dalla pienezza della vita attraverso l’intensificazione del lavoro, e lo libera dal reddito da lavoro, attraverso disoccupazione e povertà, mentre in un’altra economia, avrebbe potuto portare riduzione del tempo di lavoro, benessere e sostenibilità ecologica. E ciò non ha nulla a che fare con la bontà o meno di singoli padroni del capitale. Se una data azienda dovesse distribuire tutti gli effetti dell’aumento dell’efficienza direttamente ai suoi lavoratori in riduzione di orario di lavoro, miglioramento delle condizioni o in aumento dei salari (o qualsiasi misura in mezzo), non potrebbe tradurre l’aumentata efficienza in vantaggio competitivo e quindi sarebbe spinta verso il fallimento, all’uscita dal mercato, sotto l’impulso di altre aziende meno propense alla distribuzione dei benefici dell’aumentata efficienza. In un certo senso, l’economia contemporanea è una prigione sistemica, e proprio per questo dobbiamo trovare insieme i modi di evadere.
Vediamo quindi che la contraddizione fondamentale tra la misura delle cose del capitale e quelle della vita si dipana a partire dalla diversa logica attraverso la quale cose umanissime come un rapporto matematico che chiamiamo “efficienza”, acquisiscono un diverso significato a seconda che siano associate alle finalità della riproduzione del capitale o a quelle della riproduzione sociale.
E con l’efficienza energetica come la mettiamo?
L’efficienza è la misura imperiale che il nostro tempo adotta per dar valore alle attività della nostra cooperazione sociale. Essa sovrasta altre misure delle cose, altri modi di dar valore: come la salute, la dignità della vita, la convivialità, e in generale, l’amore, una parola opposta all’uso dominante dell’efficienza. Nel nostro tempo, ovunque si guarda si ammira l’efficiente e ci si rammarica dell’inefficiente. Ogni problema è letto in qualche modo come mancanza di efficienza. Siamo sconvolti da problemi enormi della riproduzione sociale con povertà che cresce in mezzo alla ricchezza sempre più concentrata in poche mani? È una questione di efficienza del lavoro. Siamo minacciati dall’ecatombe climatica? Basta aumentare l’efficienza energetica. La scuola e la sanità affannano per mancanza di finanziamenti e tagli continui mentre dall’altra parte i profitti si accumulano? L’efficienza di studenti e insegnanti, medici e infermieri deve aumentare. L’efficienza è vista come necessaria per battere la concorrenza, per l’aumento dei salari, per l’aumento del benessere, per affrontare il cambio climatico. Le nostre vite sono attraversate da questa nozione di efficienza che si presenta come soluzione per tutti i mali, mentre — nei modi in cui è messa in campo — essa contribuisce alla creazione e all’aumento di questi stessi problemi. L’efficienza vista come la panacea di tutti i problemi della riproduzione sociale è una grande bugia del nostro tempo.
Si prenda la scuola per esempio. Nella riforma degli istituti tecnici e professionali che il ministro dell’Istruzione del Merito, Giuseppe Valditara, sta pensando di introdurre, già dal prossimo anno scolastico, si vogliono ridurre gli anni anni di formazione scolastica a quattro. Allo stesso tempo si vuole aumentare il numero di ore di alternanza scuola-lavoro con due anni post-diploma, durante i quali i ragazzi e le ragazze verranno seguiti da insegnanti interni al mondo del lavoro. Come ci ricorda Cristina Morini su un articolo su Alias (il manifesto, Questa non è proprio una scuola per giovani), “gli studenti saranno, cioè, lavoratori non pagati per due interi anni…” Per il ministro Valditarasi si tratterebbe di “una strategia fondata sulla connessione delle politiche d’istruzione, formazione e lavoro con le politiche industriali2. È chiaro che due anni di lavoro non pagato è per le imprese che lo usano un’operazione assai efficiente: output alle stelle, e costi minimi. Ma che ne è della scuola nel contesto della vita, o per dirla ancora con Cristina Morini, nel “proprio ruolo di luogo di crescita culturale, di spontanea maturazione, di appropriazione possibilmente diretta e attiva di strumenti curriculari che facilita lo sviluppo di affettività e di attitudini, volutamente separato dalle imposizioni della realtà lavorativa?”. Le ragioni dell’efficienza dentro l’economia si prendono tutto.
Lo stesso si può dire dell’efficienza energetica. Siamo tutti d’accordo che un aumento dell’efficienza energetica — cioè il rapporto tra l’effetto utile ottenuto (o prestazione erogata) e l’energia immessa in ingresso — possa contribuire a ridurre le emissioni e quindi aiutare ad affrontare il cambio climatico. Ma anche qui, è importante situare il contesto in cui questo aumento di efficienza avviene. Una comunità energetica in un paese che decide di mettere in comune fonti di energia rinnovabile, ha aumentato la propria efficienza energetica, e su questa base può non solo congratularsi per aver ridotto l’energia fossile utilizzata, ma anche distribuire i benefici economici tra i membri della comunità. Questo nella misura in cui tale comunità energetica non è in competizione economica con altre, cioè essa produce più o meno l’energia di cui ha bisogno il territorio. La cosa contrasta completamente con l’efficienza energetica proclamata come necessaria dentro un paradigma di crescita economica. L’idea dell’efficienza energetica portata con nuova tecnologia, non risolve il problema della massa di Co2 o di sostanze tossiche in atmosfera o nei vari cicli e nicchie ecologiche. Come abbiamo visto, l’efficienza per definizione non è un numero assoluto, ma un rapporto, ci dice che questa lampadina consuma meno in un’ora, o questo motore consuma meno combustibile per chilometro. Non ci dice nulla su quante lampadine sono state prodotte e quanto sistema ecologico è stato distrutto per la loro produzione. Così un motore efficiente dal punto di vista energetico, non ci dice nulla su quante automobili vengono prodotte, o quante nuove strade si vogliono costruire. In un sistema economico che vede la crescita economia come dogma da perseguire, che anche pianifica l’obsolescenza dei prodotti, queste quantità prodotte devono aumentare, con il relativo impatto ambientale. E la minaccia ci viene appunto dalla massa di distruzione ecologica e inquinamento tossico che il sistema economico produce, non dal rapporto di inquinamento per unità di materiale usato. Se il sistema economico e di vita ad esso legato deve ridurre in termini assoluti il suo impatto, è necessario produrre meno cose, e ciò rende necessario la distinzione politica e di valore di cosa sia necessario, e compensare questo con più attenzione alle relazioni, alla cura, al welfare per salvaguardare tutti.
Rigenerare la nostra vita collettiva
Ora, è vero che nel lungo periodo aumenti della produttività sociale hanno permesso aumenti salariali e riduzione dell’orario di lavoro (cose entrambi stagnati in Italia nell’ultimo quarantennio). Ma aumenti salariali e riduzione dell’orario di lavoro non sono avvenuti a causa della maggiore efficienza del sistema produttivo, ma solo attraverso una rincorsa fatta dai movimenti operai e sociali nel corso degli anni, le cui lotte storiche hanno imposto leggi e norme sociali in questo senso (si pensi alla grande lotta per le otto ore, che ancora festeggiamo il primo maggio, spesso senza consapevolezza delle sue origini). Per riprenderci il carattere socialmente ed ecologicamente utile dell’efficienza, dobbiamo quindi inserirlo dentro altri rapporti della cooperazione sociale, e questo non può che passare sia attraverso la lotta che attraverso la costituzione di economie-altre.
Bisogna dunque decolonizzare l’efficienza, metterla al posto che le compete nel contesto della misura delle cose della vita e non quella del capitale. Dal lato del modello economico che intende colonizzare tutta la vita, è una panacea, e questo sappiamo essere una bugia. Dall’altro, dentro un ecologia di rapporti sociali che permettano la distribuzione equa e giusta dei suoi costi e dei suoi benefici, è uno strumento che aiuta a liberarci dal lavoro coatto e che apre spazi e orizzonti di vita. La grande sfida che abbiamo davanti, è ricreare l’ecologia di rapporti della nostra cooperazione sociale, riconfigurare i bisogni e i desideri, incontrarci, lottare, trovare forme di convergenza, rigenerare la nostra forma di vita collettiva, il nostro comune.
Tratto da: https://comune-info.net/decolonizzare-lefficienza/
[Secondo i parametri imposti dal digital marketing per l’ottimizzazione sui motori di ricerca (Seo), questo articolo non è stato scritto perseguendo l’efficienza. Ce ne faremo una ragione]