L’inferno qua da noi

di Paolo X Viarengo.

Sono là. Alla stazione chiusa di Canelli (come si può vedere in questo video girato dalla Cgil di Asti). In un bosco vicino all’Eurospin sempre a Canelli. Sono su un treno o su una corriera che parte da Asti quando è ancora buio, per arrivare a Montegrosso prima dell’alba. Aspettano che qualcuno passi a prenderli per portarli nelle vigne a vendemmiare. Qualche anno fa erano europei dell’est, ora arrivano dall’Africa Subsahariana. Lavorano dalle 12 alle 13 ore al giorno per 3 o 4 euro di paga oraria. Regolarmente in nero, oppure con contratti bimestrali in cui figurano poche giornate lavorate, ma in cui figura sicuramente quella in cui arriva il controllo. Senza tutele. Senza sicurezze...

Senza niente che possa far sembrare a tutti di essere nel civilizzato, erudito ed attento ai Diritti, Nord Italia nel 2021. Così come niente del moderno Piemonte si sposa con l’accampamento provvisorio dietro all’Eurospin o alla Stazione canellese. Sembra di piombare in un campo profughi o in una favela. Sembra di percorrere centinaia di migliaia di chilometri dal lustro centro della Capitale dello Spumante, invece che poche decine di metri. Sembra di essere nei campi calabresi dove, caporali in odore di ‘ndrangheta, assumono per poche giornate, e troppe ore, invisibili schiavi. Quegli stessi schiavi che una certa politica, ignorante ed opportunista, bolla come ladri di lavoro degli italiani. Stupratori. Portatori di malattie e criminalità. A Canelli non ci sono stati stupri, malattie o criminalità. Però ci sono stati grappoli d’uva tagliati per un tozzo di pane e portate a vinificare.

Non c’e’ stato furto di lavoro a danno di italiani, ma c’e’ stata una vendemmia vergognosa che altrimenti non sarebbe stata fatta. E non ci sono stati nemmeno caporali in odore di ‘ndrangheta che vessano i migranti con ricatti e violenze, ma persone, uomini e donne come noi, che per risparmiare qualcosa, lordano le loro uve con lo sfruttamento del prossimo. Con il lavoro nero. Con le baraccopoli. E, gli altri, i cosiddetti “colletti bianchi” li consigliano su come gestire fiscalmente e furbescamente quella che è, a tutti gli effetti, una tratta di schiavi. E gli altri, le grandi case vinicole, vanto ed orgoglio del nostro territorio, si girano dall’altra parte quando arrivano le uve e le mettono a bollire nei loro capaci e tecnologici tini. E gli altri, noi, ci tappiamo occhi e naso quando acquistiamo al supermercato un vino sottocosto, incuranti del perché è sottocosto e come sia possibile venderlo così a poco. Incuranti del sudore, delle umiliazioni, del lerciume che ha tolto quei pochi euro dal prezzo della nostra bottiglia.

Un tempo la vendemmia era il motivo per cui i figli, emigrati nelle grandi città, tornavano alla campagna dei padri per aiutare chi vi era rimasto, in quelle settimane di intenso lavoro.
La vendemmia era una festa da cui derivavano mangiate collettive e motivo per stare assieme. Ora è dramma. E’ dramma di poveri migranti che cercano lavoro, qualunque lavoro, pur di poter mandare qualche sommetta alla famiglia rimasta in Africa. E’ dramma di poveri contadini che affidano al raccolto di uva la loro sopravvivenza di tutto l’anno e, quindi, devono risparmiare sui costi. Pregare che non grandini. Impestare le coltivazioni con prodotti talmente tossici che nessun apicoltore sano di mente metterebbe una sua arnia vicino ad una vigna: tutte le api morirebbero.

Quello che un tempo era sinonimo di lavoro duro, di festa, di ecologia e di vita sana ora è dramma, umiliazione, paura e pestilenza: è mercato. Dove si cerca di contenere i costi per avere profitto. Per poter vendere a prezzi concorrenziali, perché la gran massa di consumatori, alla fine, sceglie il prodotto che costa di meno. Perché la gran massa di consumatori, alla fine, non ha soldi da buttare. Ne ha pochi e gli servono per campare. Pagare il mutuo. Pagare gli studi ai figli. Questa purtroppo è l’economia di mercato. Questo purtroppo è il mondo dove viviamo.

E non occorre andare a vedere le monocolture di avocado in Sud America o di cacao in Africa, irrorate da pesticidi, gestite da trafficanti che, per conto delle multinazionali del settore, pagano niente e sfruttano i lavoratori. Non occorre fare troppi chilometri per andare a vedere la foresta amazzonica bruciata per far posto ad allevamenti intensivi o monocolture. Basta aprire la porta di casa. Guardarsi intorno.

Vedere quanti boschi restano ancora qua da noi senza attraversare l’Atlantico: abbattuti per fare posto alle vigne, alle nocciole piuttosto che a qualche resort di lusso. Basta provare solo a pensare di andare a pescare nel nostro Tanaro, nel nostro Belbo o nel nostro Borbore e, perché no, provare anche a farci una nuotata.
Basta andare a parlare con il ragazzo di colore che ci dà fastidio sotto casa perché sta bevendo una birra con i suoi amici. Quello stesso ragazzo contro cui qualcuno aizza la nostra paura per un pugno di, sporchi, voti.

Quello stesso ragazzo senza il cui sfruttamento non ci sarebbe stata la vendemmia da noi, la raccolta delle mele nel saluzzese o delle nocciole nell’albese. Basta andare nel supermercato del nostro quartiere e vedere i prezzi a cui vogliamo acquistare i prodotti, perché, a prezzi più alti, non possiamo permetterceli. Perché il mondo non è sbagliato ed inquinato solo in posti esotici e lontani da noi. Perché il sistema che regola il mondo è sbagliato ovunque. Perché purtroppo l’inferno è qua da noi, prima che da altri parti.
Oramai, dentro di noi.

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