di Loris Campetti (tratto da: Il Manifesto)
L'inflazione cresce decisamente più dei salari, il che vuol dire che i lavoratori dipendenti si impoveriscono. Ma siccome il Pil nominale cresce oltre l'inflazione, di soldi ne circolano di più. Evidentemente, però, non vanno ai salari bensì al profitti. I dati pubblicati ieri dall'Istat confermano una tendenza che va avanti da diversi anni e le diseguaglianze sono accresciute dalla crisi del sistema contrattuale.
Ne parliamo con Francesca Re David, responsabile nazionale dell'organizzazione della Fiom-Cgil.
Cosa raccontano i dati dell'Istat sui primi nove mesi del 2007?
Una storia purtroppo già nota: la ricchezza si sposta dal lavoro alla rendita e al capitale. In dieci anni, questo spostamento ha superato i 10 punti, una valanga di danaro. Gli accordi del luglio '93 hanno garantito una forte moderazione salariale, mentre le altre voci che avrebbero dovuto fornire garanzie sul valore d'acquisto dei salari sono rimaste lettera morta. A questo si aggiunge la riduzione del welfare, cioè di tutti quei i servizi sociali senza i quali il valore del salario inevitabilmente si riduce.
E' un fenomento che riguarda l'insieme dei lavoratori dipendenti. Dunque: mal comune mezzo gaudio?v Non è così. La pretesa di legare sempre più il salario alla redditività d'impresa non fa che aumentare le disparità nel mondo del lavoro, senza più elementi di riequilibrio. Questa pretesa degli imprenditori si spiega in un solo modo: il rifiuto padronale di riconoscere il valore sociale ed economico del lavoro in sé.
C'è un legame tra questa cancellazione e il mancato rinnovo di così tanti contratti?
Naturalmente, nel senso che non viene riconosciuta dalle controparti imprenditoriali la necessità di mediazioni con il lavoro e, così, anche il vecchio sistema di regole non certo vantaggiose per i lavoratori si è bloccato. Soltanto con il conflitto sociale si riesce a strappare qualcosa.
Se anche legassimo il salario all'inflazione comunque intesa, al massimo riusciremmo a fotografare l'esistente, cioè un insieme di diseguaglianze senza possibilità di riequilibrio. L'idea di ridurre i contratti nazionali al puro recupero dell'inflazione, rinviando gli aumenti alla pura redditività d'impresa non frenerebbe lo spostamento della ricchezza verso la rendita e il capitale, e non riavvierebbe un equilibrio dentro il mondo del lavoro dipendente.
Le ore di sciopero sono crollate, meno 56% negli ultimi nove mesi. Ogni lavoratore ha scioperato in media 5 o 6 minuti nel 2007. Ciò dipende dall'esplosione dell'«esercito di riserva», il precariato in tutte le sue forme, ricattabile e usato contro il sistema dei diritti del lavoro? Oppure dall'effetto «governo amico»?
I precari, i lavoratori a termine, sono costretti a lavorare in condizioni peggiori e hanno un bassissimo peso sindacale, per ragioni evidenti che non dipendono certo dalla loro soggettività. Questo conta, anche nella riduzione di ore di sciopero. Ma è probabile che un ruolo l'abbia avuto anche la forte aspettativa legata al nuovo governo.
Resta un dato: le ore di sciopero sono crollate. Noi metalmeccanici abbiamo iniziato la partita contrattuale a settembre e siamo già a 40 ore di sciopero, ma in generale si può dire che i due fattori, uno materiale legato alla condizione di lavoro e uno politico legato al rapporto con il governo Prodi, hanno abbassato il tasso di conflittualità.
C'è un tabù, nella politica e nel sindacato: la scala mobile. Ma se lo stato dei salari è quello che sappiamo, non sarebbe il caso di riportarla all'ordine del giorno?
Siamo in una fase diversa in cui, però, il tema del sottosalario per i precari, per i lavoratori a termine, per i lavoratori artigiani ci impone di ripensare a forme di recupero del valore d'acquisto dei salari. Sono tanti i lavoratori che guadagnano sotto i minimi.
Un altro tabù è quello del salario minimo...
E' un punto complesso, ma i tabù non aiutano ad affrontare i problemi. Se persino i metalmeccanici tedeschi si pongono il problema del salario minimo, questo vuol dire che l'interrogativo è legittimo.