Era una domenica d’autunno e Paola e Franco, con la loro auto, avevano abbandonato la strada trafficata tra Asti e Alba e si erano portati al di là del Tanaro. Scoprirono così il fiume dalle anse strette e riparate dagli alberi con le foglie ingiallite, che davano riflessi dorati sull’acqua e i voli rapidi di germani intorno alle rive ...
Dai tornanti della strada scendevano i trattori che portavano le uve alle cantine. Franco, orgoglioso di essere un intenditore, commentò: “Guarda quante uve. La barbera una volta era un vino da osteria, ma adesso si è affermato anche sul mercato internazionale. Cosa dici, ci fermiamo?”
Videro il cartello Castagnole delle Lanze. “Si”, rispose Paola, “questo paese ha un nome antico che mi fa ricordare i cavalieri e le dame…”. Le vigne pettinate dal paziente e sapiente lavoro dei contadini si stagliavano nel cielo bianco di nuvole di un settembre dolce e luminoso. Posteggiarono la macchina per vedere da vicino i grappoli maturi, protetti dalle foglie splendenti nel rosso e nel giallo della fine della stagione. Salirono il sentiero e arrivarono alla cima della collina, da dove si vedeva la larga valle sottostante, interrotta da macchie di boschi. Quel paesaggio era da assaporare lentamente, come un buon bicchiere di vino, nelle sue conche d’ombra e nel bagliore del sole del mezzogiorno. Nell’aria riecheggiavano ancora mille voci d’uccelli, anche se le rondini erano già partite per l’Africa.
Paola si fermò a guardare, mentre Franco si chinò sui grappoli per valutarne il grado di maturazione. Poi ritornarono verso l’auto, lasciata in uno spiazzo di sosta, ombreggiata da un boschetto di castagni. Un vecchio sorridente con un cesto di erbe al braccio si mosse verso di loro, quasi li aspettasse. “Siete forestieri?”, chiese. “Si”, rispose Franco, ”siamo venuti da Milano per vedere la vendemmia”. “Se volete vi accompagno io in paese e in cantina, io so molte cose della campagna”. “Grazie, è gentile”, disse Paola e poi con gli chiese: “Scusi la mia curiosità, ma cosa è andato a fare nel bosco?”.
Il vecchio sorrise con la malizia dei suoi occhi azzurri: “Raccolgo le erbe come mi ha insegnato mia nonna. Ma io non sono sempre stato qui, io sono stato in giro per il mondo…” Paola aggiunse subito: “Davvero? E dove è stato?”
Il vecchio fece una pausa prima di rispondere e il suo sguardo si illuminò: “Eh, cara signora, se ha voglia di ascoltare, le racconto la mia vita avventurosa di viaggi e di amori”. E fece strada a Paola e Franco verso le case.
Franco rimase sorpreso e la sua immediata reazione prese la forma geometrica di uno sguardo interrogativo, denso di complicità. Che incontrò il divertito, giocoso ammiccamento di Paola, disegnò una parabola tra le loro esperienze ed un desiderio mai sopito di futuro, precipitò nella nuova dimensione dell’incontro. Tra culture e civiltà.
Così vicine, da apparire irrimediabilmente irraggiungibili.
I loro sguardi iniziarono a seguire la lenta ma inesorabile marcia del vecchio contadino. Fu quasi come se un autoritario ordine secco fosse stato impartito: non importa da chi e perché. I loro piedi presero l’iniziativa e trascinarono quei due corpi – carne, ossa, pulsioni, ritmi – verso la nuova meta, salmodiando un canto ancestrale. Terra, aria, acqua ed un’incognita di fuoco … corpi che si ritrovano, nella magia delle semplicità.
Senza bisogno di parole, i tre corpi presero l’orizzonte riassumendosi in un unico movimento. Una danza, forse. Lenta come il passo di un uomo stanco. Agitata come la corsa irrefrenabile di chi fugge e non lo sa.
L’animale triplice giunse alla sua meta: non caverna né palafitta. Una cascina, vetusta e non curata. Il più bel palazzo che un’anima metropolitana potesse immaginare.
Due vecchi cani di piccola taglia, tabuj dal naso abituato alle sotterranee trifole di quei luoghi, si avvicinarono salutando con le loro tozze code mozzate. Stessa cadenza del loro riconosciuto padrone, lo circondarono col loro affetto curioso, simulando sorpresa per la sua non annunciata compagnia.
Istintivamente, un micio multicolore ed un galletto americano dalla cresta imponente, copiarono le loro reazioni, avvicinandosi per poi ritrarsi con meticolosa puntualità.
Attorno, si poteva udire lo sbattito d’ali di una gazza; lassù, sopra le chiome del noccioleto.
“Venite, venite, accomodatevi” disse il vecchio ai suoi ospiti.
“C’è un po’ di disordine, scusatemi, ma io vivo da solo, sono vedovo da più di dieci anni. E non bado granchè alla casa, mi basta che sia pulita dentro e sana fuori”.
Franco disse: “ma si figuri …”.
O forse lo disse Paola.
O, forse, nessuno dei due osò dirlo perché non era quello il loro pensiero, in quel preciso istante.
Era una pura cortesia, una di quelle ipocrisie che avevano dentro, uno dei tanti-troppi ingombri del loro arredo apparente. Che, fortunatamente, quella volta rimase trattenuto.
Il vecchio captò la gentilezza onesta delle loro intenzioni; un breve silenzio indicò la sua approvazione. Poi la sua sempre lenta dialettica iniziò a perlustrare ogni angolo di quell’aia, radiografando flora e fauna, analizzando al microscopio le orme di chi era passato e di chi vi era restato: lui, l’ora vecchio.
Una casa di fine ottocento, “roba” buona e robusta per tirarla su: mattoni cotti lavorati a mano, travi di vecchi noci a sorreggere il tetto (“perché è il coperchio che deve proteggerti, quando fa troppo caldo e quando la grandine ce l’ha con te” …), i rossi coppi che negli anni settanta tutti gettavano via perché erano scomodi da mantenere e che ora venivano venduti a peso d’oro, la sbiadita meridiana per “sapere sempre che ore sono, anche quando le campane della chiesa tacciono”.
Paola ascoltava. Franco ascoltava. I loro sguardi, sempre più complici, erano parte integrante di quei racconti.
“Io, in questa casa, ci sono nato. La mia era una famiglia povera: padre, madre, sette fratelli e un po’ di terra con cui viverci. Ma non era un gran vita. A sei anni ero già nei campi a seguire i comandi di mio padre; ad imparare a fare il fieno, legare una vite, pulire la stalla, far nascere un vitello, piantare un palo, cavare le patate … E’ così che si impara. L’esperienza è tutto, nella vita. E l’esperienza non te la insegna nessuno, te la devi fare da te: con le mani e con il cervello. E con il sudore. E la voglia di sbagliare. E con l’umiltà”.
Già, l’esperienza. Quando sei giovane, vorresti possederla. Quando invecchi, vorresti saperla regalare. Ma nessuno ce l’ha mai insegnato.
“Insomma, era dura, era grama per tutti. Quando venne la guerra, pensai che era finalmente arrivato il mio momento e mi arruolai. Ma non perché fossi obbligato … no, no. Chiesi io di poter partire, addirittura in anticipo. Ma mica per la Patria, sapete … quelle sono cose che si dicevano alle ragazze della nostra età per impressionarle. No, andai a militare perché a casa era vita grama e il raccolto non bastava per tutti. E le vigne, ogni giorno, avevano una malattia nuova; un anno sì e uno anche, raccoglievamo grappoli che facevano senso e il vino era quello che era. E poi, venderlo era un’impresa”.
“Dopo due giorni dall’arruolamento, ero già in partenza per l’Abissinia. Dopo una settimana conoscevo la guerra meglio di chiunque altro. Non c’era nulla di così interessante, credetemi. Non le armi, non il rischio, non l’accanimento che mostravamo contro uomini e donne più spaventati di noi ma affamati come noi: insomma, incolpevoli come noi”.
“Un bel giorno – dico bello ma dovrei dire pazzesco – tirava un vento come solo chi abita in quelle regioni può capire e il comandante decide di fare il suo lavoro e mi … comanda, ecco, mi spedisce in un villaggio lontano, con le armi cariche e qualche giovinetto spaventato come me. Mi dice che là ci sono ancora dei ribelli, bisogna che pieghino la testa a costo di spezzargli le reni. E’ una frase che diceva spesso, credo fosse una citazione di qualche discorso del duce: sapete, vero, chi era il duce ?”.
Paola e Franco sorrisero, senza svelarsi come due moderni insegnanti di storia e lettere.
“Il duce, cioè Mussolini, quello famoso per il socialismo che diventa fascismo quando bisogna difendere gli interessi di qualcuno ... Fatto sta che mi ritrovo sul camion, siamo in venti, tutti di vent’anni, il vento che solleva la sabbia … Avrei dovuto capire da quegli indizi che era pericoloso. Arriviamo a destinazione, scendiamo dal camion, c’è un silenzio totale. Passa un minuto ed è l’inferno, i ribelli erano lì pronti che ci aspettavano, un agguato. Vengo ferito. Sto morendo. Forse sono morto davvero e questo qui che vi racconta la storia è uno che vuole ricordarsi di me”.
“Insomma, mi risveglio che sono passati chissà quanti giorni: quando sei in guerra, le ore sono tutte uguali e tristi, figuratevi i giorni. Mi risveglio e sto male, dentro e fuori. Sono in una casa di paglia e sterco che la mia vecchia stalla mi pare un castello. Sono l’unico sopravissuto. Ed è un miracolo. Una donna, anziana e magra, non ha voluto che mi sparassero il colpo di grazia, mi ha portato nella sua paglia e mi ha curato con quello che aveva: altra paglia ed erbe secche, fino a rallentare il male, ad allontanare la morte.
Nelle loro credenze, chi si salva da morte certa è un messaggero divino. Così mi hanno lasciato stare. Otto anni, otto lunghi anni ho vissuto in quel cimitero di anime ansimanti. Ho scavato decine di fosse per i molti che cedevano per fame. Lontano da tutto, lontano da tutti. Dimenticati, loro ed io, dalle loro guerre e dalle loro abitudini”.
“Poi, un bel giorno, la mia vecchia salvatrice se ne è andata altrove, credo in un paese più sereno. Ho preso il suo corpo, quaranta chili di ossa fragili, e l’ho aggiunto ai molti corpi di un campo di lacrime. Mi sono guardato attorno: non c’era più nessuna di quelle povere persone che avevo osservato al mio risveglio dalla morte. Mi sono allontanato, volevo annusare ancora una volta l’odore della mia terra. Oggi quel paese non c’è più. E dove c’è questa casa, dove vi trovate ora voi, questo è il mio nuovo paese. Il mio vecchio paese”.
L’uomo sospirò e tacque, trangugiando un bicchiere di barbera. Il sole ancora caldo di quel mite autunno, era già scivolato oltre la collina e le prime trasparenze della sera osservavano la scena dall’alto, forse gelose di quella tavola imbandita di salami, formaggi, pane e vino che erano, quasi per magia, comparsi durante il racconto. Paola e Franco non se n’erano accorti, avvinti dal raccontare placido del vecchio. Eppure avevano assaggiato cibi e vino, più vino che cibi, tanto da sentirsi lucidamente storditi.
Che strano, pensò Franco, avvertire la leggerezza dei sensi senza patire le asprezze del corpo; in bocca, il sapore del vino e del pane riecheggiavano l’invito a non essere sé stessi.
Che strano, pensò anche Paola, vedere e assaporare uno scorcio di mondo che non penseresti mai come il tuo mondo, ma come qualcosa di distante, di irraggiungibile perchè mai raggiunto.
Il vecchio diceva “terra” e Paola poteva toccare un pugno di polvere che, via via, si faceva più umida per, poi, inaridirsi all’improvviso ed assumere la rigida compattezza del brillante. Il vecchio diceva “il mio paese” e per Paola non c’era più bisogno di sforzare la sua immaginazione per figurarsi quel paese; diverso da un altro, migliore e peggiore e uguale.
Perché ciò che ti appartiene deve essere per forza “altro”.
E’ “altro”.
Paola ascoltava le parole del vecchio e vedeva con nitidezza le colline farsi anfiteatro, mandare in scena la solenne recita della vendemmia: ronzii, colori accesi, aromi.
Uomini e donne ricchi di certezze. Che si sprigionano in gesti consapevoli. Che si mescolano a nuove abitudini. Che assommano produzioni dal gusto soffuso: un lavoro che affatica ma non stanca, un’economia che ricerca ma non stratifica.
Ed era curioso come quel mondo fosse tutt’uno con quel luogo - dall’altra parte - che il vecchio aveva raccontato. La pace e la guerra. La terra e la polvere. Il vino e la fame.
Un mondo. Lo stesso mondo.
La campagna e la città.
Lo stesso mondo.
Un mondo di amori, forse anche di uomini e di donne. Di donne che, certamente, il vecchio aveva conosciuto, posseduto, anelato e che facevano capolino qua e là nel suo racconto. Donne di ogni colore: bianche e dolci come lo spumoso moscato fresco di cantina, nere e forti come l’aspro nettare delle barbere invecchiate.
Perché un uomo non è nulla senza una donna al fianco.
“Dieci anni fa” disse allora il vecchio “mia moglie mi lasciò da solo, all’improvviso. Una donna robusta, sempre allegra, decisa: una sera rientro in casa, è estate piena ed è già tardi. Ma d’estate è la luce che ti guida, tra i filari si sta bene fintanto che il buio non se la vince …, così finisci la tua giornata che qualcuno è già andato a dormire. Quella sera, mia moglie era già andata a dormire, sdraiata vestita sul letto, la bocca aperta come per un bacio, ma il viso pallido e freddo, senza sudori. Non sì è mai più risvegliata, ma io so che prima o poi la rivedrò muoversi; perché le donne delle nostre colline sono piene di energia. E’ il vino, questo vino forte, che dà loro l’energia”.
“Intanto, vado avanti per la mia strada. Non corro, questo no, ma di cose ne faccio ogni giorno. E non solo con le mani: le faccio col pensiero, le faccio col cuore. Mi piace andare al di là di un gesto e domandarmi se dietro a quella spesso semplice operazione, non c’è un segreto, un messaggio, un codice. Io la natura la sento, vedo le sue evoluzioni. Capisco quale valore abbiano quei grappoli quando si ingrossano, quando trasformano la loro muta allo scandire dei mesi. E’ il senso della vita. Il senso della mia vita. Il senso della nostra vita”.
Paola e Franco si alzarono, strinsero la mano al vecchio con la complicità di un abbraccio fraterno, allontanarono le ombre della notte e del troppo vino, salirono sulla loro tecnologica autovettura dal fine design. Franco guidò rapido fino a raggiungere le luci già ridotte della metropoli: nessuna magia, nessun suono. Parcheggiarono l’auto, salirono le scale, entrarono in casa e si accalcarono all’istante sotto il getto della doccia. Sperarono che l’acqua fredda scacciasse i pensieri, spegnesse le persistenze del vino, rasserenasse le loro angosce ritrovate. Si coricarono, tra le lenzuola subito offese.
Paola, però, non dormì quella notte. La mente sintonizzata agli incontri di quella giornata, valicò colline, scivolò tra gli ordinati filari, spostò ceste colme di acini vigorosi, parlò a lungo con quel vecchio. Parlò con parole che non sapeva di possedere, in una lingua che chiunque poteva capire.
Là, nel mondo.
“Domenica torneremo da quel vecchio, forse lui saprà indicarci una casa vuota in cui andare a vivere” disse Paola la mattina, al risveglio di Franco.
“No” rispose Franco. “Meglio non aspettare: torniamoci ora”.
Là, nel mondo.