Lettera sulle garanzie universali per la salute

di Eleonora Artesio, Assessora alla Sanità della Regione Piemonte

“Senza un linguaggio comune a tutti (medici, malati, sani, uomini, donne) Senza un modello comune di costruzione della salute, di difesa della capacità e della possibilità di vivere e senza un modello comune di malattia, l’assistenza sanitaria diventerà una torre di Babele, una costruzione sempre più costosa e sempre più inefficiente”.

 

Con queste parole, negli anni della riforma sanitaria, il prof. Ivar Oddone nel suo libro “Medicina preventiva e partecipazione” ammoniva sui rischi possibili e ancora prepotentemente attuali. L’antidoto suggerito consisteva in “linguaggio comune” e “modello comune”.
Non stupiva né sembrava impossibile allora un percorso collettivo per ricercare equità nell’accesso alle opportunità e per condividere la selezione delle priorità: del resto le richieste di prevenzione dai rischi sul lavoro nascevano esattamente da una coscienza “comune” dei lavoratori indisponibili a scambiare ancora salute con salario; del resto la riforma sanitaria del 1978, che sancì il governo pubblico e la copertura universalistica dei servizi delle prestazioni sanitarie, scaturiva dalla cultura dei diritti fondamentali della persona definita dalla Carta Costituzionale e praticata nelle lotte delle organizzazioni sociali, dai sindacati ai comitati di quartiere.

 

A 30 anni di distanza il PSSR della Regione Piemonte torna a parlare della salute come “bene comune”. Per i detrattori si tratta di retorica nostalgica. E’ invece una urgenza culturale e politica. Il diritto inalienabile della persona si è trasformato nel diritto dei cittadini che rivendicano la esigibilità delle cure in nome del prelievo fiscale col quale sostengono il servizio sanitario; la soddisfazione dei bisogni di salute è diventata equivalente al consumo di farmaci e di prestazioni; si confonde l’obbligo etico e sociale di curare con l’obbligo di guarire riducendo così a un costo le condizioni umane inguaribili, ma doverosamente curabili, come le malattie croniche. Così accade che i cittadini non incontrino più le persone e si può legittimare la follia secondo la quale i non contribuenti, specie se stranieri o diversi, non abbiano titolo a condividere risorse di protezione sociale: a questo abbiamo assistito quando legislazioni xenofobe hanno tentato di imporre al personale sanitario l’obbligo di denuncia degli immigrati irregolari; a questo assistiamo quando – colpevolizzando le persone per le loro patologie si contestano i costi dei servizi che, accettando le fragilità e le cadute, accompagnano il disagio mentale e le diverse dipendenze; a questo ci adattiamo quando si legge o si ascolta l’invettiva scagliata contro il tempo per l’attesa nell’incuranza di codici più urgenti.

Queste tendenze non preoccupano solo per l’assenza di una etica pubblica, ma per la loro pericolosa saccenza. Sarebbe solo banale riconoscere che la condizione di ciascuno influenza il contesto comune ed è quindi, conveniente garantire il grado di salute di ciascuno per aumentare la qualità di salute dell’ambiente condiviso. Sarebbe salutare operare politicamente perché lo spazio pubblico si riappropri del tema della tutela della salute ora, non per essere chiamato a pronunciarsi come una tifoseria sull’autodeterminazione e sul fine vita – come accade ora – ma per riscrivere l’incontro più giusto tra il diritto individuale e il bene comune.

Nelle previsioni del PSSR questa sintesi è da ricercare nell’appropriatezza: offrire a ciascuno ciò che è veramente necessario in modo egualmente efficace in ogni punto del sistema. L’appropriatezza è garanzia di equità di sicurezza: l’abuso di farmaci e di prestazioni non è soltanto un danno economico, ma si traduce in effetti collaterali, in errori (falsi positivi), in incapacità di sintesi diagnostica, in sofferenza psicologica del malato. Promuovere la cultura dell’appropriatezza non esita da circolari ministeriali a regionali ma da un lungo lavoro di relazioni tra professionisti indipendenti, tra cittadini informati, tra politici programmatori: appunto quel linguaggio “comune” e quel modello “comune” da cui parte questa riflessione.

Il compito è arduo: da anni la sanità è stata sottratta alla dimensione politica, intesa come “polis” e consegnata alla tecnica aziendalista fintamente neutra, ma ancor di più al percorso si oppongono altri interessi. All’offerta delle prestazioni sanitarie concorre non solo il pubblico, ma quel sistema misto pubblico – privato accreditato previsto dal servizio nazionale.
L’imprenditoria sanitaria non è un’imprenditoria come un’altra: innanzitutto tratta un bene fondamentale, e in più ha un solo grande cliente, le Regioni che rimborsano le prestazioni.

E’ evidente che chi ha l’interesse a mantenere alti i margini delle entrate non potrà che alimentare bisogni presunti su un terreno fertile, cioè sulla più sensibile delle questioni umane, la paura delle malattie e della morte. Questo accade quanto la salute diventa una merce, mentre è un diritto e un bene collettivo.
Quando la salute diventa merce allora è indifferente chi la produce e può accadere che si deleghi la gestione di interi segmenti assistenziali al privato con una conseguenza inevitabile: che il pubblico, illudendosi di mantenere il governo e la regia dal sistema, si spogli della cultura e dell’esperienza del fare, diventi incapace di incontrare le plurali condizioni di vita, ognuna con una storia clinica differente e, alla fine, subisca le logiche di coloro cui si è affidato.

I nuovi alfieri della modernità denunciano il volume, a loro dire eccessivo, del lavoro dipendente nel servizio sanitario, tentano di razionarlo con i blocchi delle assunzioni, censurano le Regioni che procedono alle stabilizzazioni del personale precario. I nuovi alfieri della modernità aspirano al mercato come regolatore del sistema e lo motivano con la libertà di scelta dei cittadini.

La Corte dei Conti, esaminando il bilancio della Regione Lombardia, ammonisce sulla diminuzione dei posti letto negli ospedali pubblici a favore di quelli privati: “Bisogna evitare il rischio che le strutture private accreditate per propria natura o per vocazione finanziaria possano perseguire un interesse meramente economico, non sempre coincidente con gli interessi di carattere generale…favorendo di fatto l’offerta di prestazioni ritenute più remunerative a discapito di altre di minore impatto sociale e di conseguente diverso ritorno economico”.
Il Governatore Formigoni replica: “La nostra riforma del 1997 equipara in maniera totale le strutture pubbliche con quelle private. L’obiettivo della riforma è che si possa scegliere tra tutte le strutture a disposizione”.
L’onorevole Casini dell’UDC interpellato sulle condizioni di alleanza con il centrosinistra in Piemonte invoca segnali di discontinuità che, in sanità si configurerebbero con la libertà di scelta dei cittadini.

Spiace che parole alte come “libertà” vengano impiegate per un perimetro socialmente così mediocre come la libertà incontrollata di interessi di parte; preoccupano ancor di più le conseguenze possibili. In un sistema che moltiplicasse a quel modo l’offerta, sarebbe impossibile continuare a garantire la gratuità (o la partecipazione parziale); infatti c’è già chi dice che non si può dare tutto a tutti e che la crescita della spesa sanitaria in rapporto al PIL sia insostenibile.
Eppure i dati finora hanno raccontato un'altra storia: i Paesi con i Servizi Sanitari nazionali a finanziamento pubblico esclusivo o prevalente sono caratterizzati da livelli più bassi del rapporto spesa sanitaria/PIL e da tassi di crescita inferiori rispetto ai Paesi con più finanziatori.

Tra il 1990 e il 2004 la spesa sanitaria in Italia è aumentata dal 7,7 al 8,7 del PIL; la spesa media nei Paesi U.E. dal 7,3 al 9,1; negli USA da 11,9 al 15,2; eppure in quegli anni si pubblicavano studi con proiezioni allarmistiche esattamente come ora. Pare, quindi, che il SSN soffra di un problema di sostenibilità politica prima ancora che finanziaria: per questo occorre tornare alla centralità del suo carattere universalistico, incoraggiare la partecipazione delle organizzazioni sociali e delle professioni sanitarie, affermare la titolarità e la responsabilità pubblica in quel difficile compito di conciliazione tra diritto individuale ed interesse collettivo: per mantenere equa e sostenibile la nostra sanità.

Oggi la vera discontinuità creativa è la conservazione di questi principi e di questo modo di essere: la modernità che può mantenerci in buona salute l’abbiamo già.

Eleonora Artesio, 15 Dicembre 2009

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