di Emilia De Rienzo.
È nel riconoscimento della nostra debolezza, nell’incontro con le fragilità che può cominciare un cammino per costruire relazioni vere e un mondo diverso. Questo dovrebbero imparare i ragazzi a scuola, che essere fragili non vuol dire sentirsi inferiori, fragilità vuol dire guardare in faccia l’uomo così com’è e, se questa debolezza la riconosciamo in noi, sarà più facile riconoscerla nell’altro e imparare a prendersene cura. Invece molti, ancora troppi bambini e bambine a scuola sono come “esiliati”, senza appartenenze, senza riconoscimento, in balia di giudizi arbitrari quanto spesso infondati… A chi vuole che questi bambini “tolgano il disturbo”, dobbiamo opporre il nostro “No”, forte e chiaro...
“Ho sempre l’impressione o la sensazione della fragilità degli esseri viventi. Ho la percezione che debbano contare su un’energia formidabile per stare in piedi, istante dopo istante, sempre con la minaccia di crollare. Questo lo sento ogni volta che lavoro dal vero”.
(Alberto Giacometti)
Alberto Giacometti in tutte le sue opere ci ricorda quanto noi esseri umani siamo impastati di fragilità. Se questa consapevolezza fosse in noi, se ci riconoscessimo come uomini e donne fragili, incerti nei nostri passi, se non sentissimo quel desiderio che sembra occupare, al contrario, i nostri pensieri, di essere sempre forti e all’altezza della situazione, forse vedremmo la vita, gli altri, il mondo con altri occhi e impareremmo a commuoverci, a meravigliarci, a gioire della bellezza che è insita in ciò che è caduco e fragile. Scopriremmo l’essenza stessa dell’essere “uomini” e non “super-uomini”. Rallenteremmo i nostri passi e i nostri sguardi potrebbero posarsi con spirito più sereno su ogni cosa che ci circonda.
Arriveremmo a dire con Giacometti: «II mondo mi stupisce ogni giorno di più. Diventa sempre più immenso e sorprendente, più inafferrabile, più bello…».
Maneggeremmo con cura e attenzione questa parola che tanto ci rappresenta. E scopriremmo quanto sia ricca la realtà fuori di noi e dentro di noi, quante sfumature si nascondono all’ombra di una luce troppo abbagliante che ci impedisce di vedere la multiformità cangiante della vita, anche di un semplice mattino:
(…) “Certe mattine ci si sveglia come se si fosse fatti di un materiale friabile, basta un soffio, un piccolo gesto maldestro per svanire del tutto. È meglio accorgersene al più presto e, parlandosi con estrema delicatezza, accompagnarsi al silenzio. Mettere a tacere senza violenza le voci e i commenti, poi alzarsi con molta cautela come un animaletto di vetro sottilissimo e non lasciarsi mai soli, accompagnando ogni gesto e chiedendo delicatamente il silenzio. Lavarsi, vestirsi, fare colazione molto lentamente, con una grazia intenta, come fossero piccoli rituali segreti, come se tutto il mondo fosse diventato delicatissimo”. (Chandra Livia Candiani, da Questo immenso non sapere, Einaudi, 2021)
Scopriremmo il valore delle sfumature, dell’ascolto interiore che apre all’ascolto dell’altro…
“Come il vetro, l’essere umano è fragile. L’estrema nostra esposizione alla precarietà e contingenza dell’esistenza è evidente nell’evento stesso del nascere, ma è importante riconoscere e mostrare come nella fragilità stia la forza intrinseca della vita umana”. (Simone Weil)
È proprio nel riconoscimento dei propri limiti che sta la nostra forza, come ci raccontano in tanti modi gli artisti, è proprio nel riconoscimento della nostra debolezza, nell’incontro con le nostre fragilità che può iniziare un cammino per costruire vere relazioni, per ritrovare se stessi, per costruire un mondo migliore.
Questo devono imparare i ragazzi, che essere fragili non vuol dire sentirsi inferiori, fragilità vuol dire guardare in faccia l’uomo così com’è e, se questa debolezza la riconosciamo in noi, sarà più facile riconoscerla nell’altro e imparare a prendersene cura. Si diventa capaci di nutrire e lasciarsi nutrire.
È così che bisogna porci davanti ai nostri allievi. Accettando quello che di fragile, al di là delle apparenze, c’è in ognuno di loro. Aiutandoli a guardarla in se stessi e negli altri, nella consapevolezza che solo così potremo camminare insieme e fare piccoli ma veri progressi. Incerti forse sulle gambe come le statue di Giacometti, ma tenaci e forti perché non siamo soli.
Aiutarli quindi a non aver paura di ciò che non sentono di essere, dei loro limiti, delle loro paure, aiutarli a non nasconderle, a non vergognarsi.
“Avanzare sempre, anche di poco, ma avanzare ogni giorno” (Alberto Giacometti)
Ogni momento, infatti, in cui la fragilità fa capolino, il più delle volte, viene vissuto come una sconfitta, come una mancanza, come qualcosa che non deve essere. E, quando risali la china, trai un sospiro di sollievo.
È così che i genitori vivono una grande frustrazione quando i loro figli non danno il massimo o li sentono considerati dagli altri come un “meno”: un meno intelligente, un meno forte, un meno abile, un meno bello, un meno… Pochi sanno vedere quanta ricchezza c’è dietro ad un “meno”. Quanta verità su come siamo, su come vivremmo con più giustizia e gioia considerando nella giusta ottica tutti i “meno” che abitano il mondo e i “meno” che abitano in noi. Forse ci renderemmo davvero conto di quanto si rende difficile la vita a chi non si sente un “più”.
Ecco: meritocrazia e fragilità, due mondi che possono contrapporsi l’uno all’altro quando in una società si tende a privilegiare “i più” e a scartare i meno. Un mondo che divide, che non cerca la ricchezza dell’armonia.
Ci sono bambini nelle nostre scuole “estranei in prossimità” come diceva Bauman ne Le sfide dell’etica, bambini lasciati ai margini, bambini per cui non sappiamo cosa fare, bambini che non sappiamo ascoltare, bambini che non stanno bene a scuola. Molti, troppi bambini a scuola sono come “esiliati”, senza appartenenze, senza riconoscimento, in balia di giudizi arbitrari quanto spesso infondati. Non possono rivendicare nulla. Nel migliore dei casi sono tollerati, nel peggiore espulsi, messi ai margini di un mondo che non li vuole dentro, che vorrebbe che “togliessero il disturbo”.
A chi vuole che questi bambini “tolgano il disturbo”, dobbiamo opporre il nostro “No”, forte e chiaro.
Dall’accettazione dell’incontro con ciò che non si conosce, può nascere un nuovo inizio, nuove conoscenze, nuovi valori, imparare a creare legami solidali. Dobbiamo opporci alla “scuola del merito”, dove solo chi si impegna, chi sarà “diligente”, chi obbedisce, sarà premiato. Questa è la scuola dell’immobilità dove tutto è sempre uguale a se stesso, ben codificato e programmato.
Hanno tentato e tentano da sempre di imprigionare la scuola, di fossilizzare il sapere, di abituarci a schedare e ad essere schedati, a testare, a inquadrare, a tracciare linee rette pur sapendo che la vita retta non è. Una scuola dove non ci sia spazio per “l’impossibile”, per quello che “non è ancora”, ma solo per “ciò che è già”. Imprigionati dentro griglie di un sistema che non corrisponde a quello che sono nella realtà bambini/e. La meritocrazia è la scuola dell’individuo che si “distingue”, che si isola dagli altri per un cammino solitario anche se considerato vincente.
La fragilità riconosciuta e accettata dà forma alla scuola della cura, dell’ascolto, della pazienza e del dialogo. La scuola di tutti e per tutti.
Chi sa di abitare la fragilità e chi riconosce i suoi limiti sa ascoltare e parlare in dialogo senza prevaricare. Non essere in corsa per vincere una gara, vuol dire essere padroni del proprio tempo: il tempo diventa una categoria della vita, non qualcosa da bruciare nell’autoaffermazione di quel falso sé che non riesce più a distinguere le menzogne che dice e che sente. Non difendersi dagli altri, vuol dire costruire nella propria quotidianità un mondo di pace, vuol dire guardarsi dentro per cambiare se stessi e non aver più la pretesa di cambiare gli altri.
Prima di qualsiasi altro discorso, la scuola è costruita sulle relazioni: possono essere positive, conflittuali, problematiche, tra pari e con gli adulti. Prima di essere un’agenzia educativa, la scuola è laboratorio relazionale, un luogo in cui ci si confronta con altro e altri. Non si può non accettare la natura sociale della scuola che è importante quanto la sua vocazione didattica, anzi ne è prerequisito. Dall’incontro delle nostre fragilità può iniziare un cammino per costruire vere relazioni.
Alla povera mia fragilità
tu guardi senza dire una parola.
Tu sei di marmo, ma io canto,
tu – statua, ma io – volo.
So bene che una dolce primavera
agli occhi dell’Eterno – è un niente.
Ma sono un uccello, non te la prendere
se è leggera la legge che mi governa.
[Marina Cvetaeva (Mosca, 1892-1941), da Scusate l’Amore. Poesie 1915-1925]