di Penny.
Ci preoccupiamo sempre che i nostri figli o i nostri alunni abbiano dei buoni risultati scolastici, a volte, sembra che il successo scolastico sia l’unico strumento che possa riconoscerli di fronte al mondo. Come insegnante ho incontrato bambine e bambini e poi adolescenti e ragazzi/e con grandi capacità che hanno conseguito risultati scolastici ottimali, alcuni di loro, però, alla fine, non sono stati in grado di aderire all’esistenza, affettiva, relazionale e sociale...
Ci preoccupiamo spesso di ciò che i nostri figli e i nostri alunni sanno fare, delle competenze raggiunte e lodiamo chi persegue le eccellenze, senza domandarci invece se i nostri ragazzi e le nostre ragazze sanno “essere”. Perché dentro alla vita è questo che conta. Saper essere.
Non ci preoccupiamo se sanno interrogarsi e soprattutto affrontare l’esistenza. Se sono davvero capaci di abitare una vita felice. Eppure dovrebbe esserci chiaro che il talento non basta e nemmeno lo studio, ho visto ragazzi talentuosi disperdere il proprio dono dentro storie di incapacità affettive ed emozionali.
Crediamo che insegnare le varie discipline e impilare conoscenze possa bastare ai nostri figli per stare al mondo, possa bastare ai nostri alunni per costruire il loro futuro, ma non è così.
Questi due anni dovrebbero averci insegnato molto, ad esempio, cosa valutare. Dovremmo tener conto quando, come insegnanti, compiliamo la scheda e quando, come genitori, la riceviamo, la capacità di adattamento e di superamento delle difficoltà dei nostri ragazzi/e, perché, saranno queste due azioni nella vita che li salveranno. Mi dispiace, invece, verificare che continua a esserci una scissione tra competenze richieste dal nostro sistema scolastico e, spesso, anche famigliari, e quella che è la capacità di affrontare l’esistenza e la capacità di essere felici.
Nella valutazione dei nostri figli e dei nostri ragazzi, insieme alla matematica e alla lingua italiana, dovrebbe contare quell’abilità di “saper essere” delle nuove generazioni, così indispensabile alla sopravvivenza in situazioni come quella che si sono trovati a vivere negli ultimi due anni.
Non mi preoccuperei troppo dei programmi persi o lasciati indietro, perché quelli, in qualche modo si possono recuperare. Non cambia la nostra esistenza se sappiamo più o meno cose, mi preoccuperei dei silenzi, dell’incapacità di relazionarsi con l’altro, della perdita di tutta quell’attività sociale così indispensabile per la loro crescita.
E tutti noi dovremmo tener conto, quando compiliamo o leggiamo una scheda, della capacità dei nostri alunni o figli di “essere stati” dentro alla sospensione dell’esistenza, dentro all’insicurezza e alla perdita. Se riuscissimo a farlo, se solo ci avvicinassimo a ciò che gli serve davvero per costruire la loro identità e il loro futuro, probabilmente molti voti si ribalterebbero, molti giudizi sarebbero sospesi, molti danni sarebbero evitati.
In fondo, la verità, è che dentro alla nostra incompiutezza, di fronte a una pandemia, loro sono dei sopravvissuti. Per lo meno, quelli che sono rimasti, perché, vorrei ricordare che una parte di loro è sparita dietro a uno schermo e chissà se mai tornerà.
Chissà se i nostri bambini/e, ragazze/i saranno in grado di perdonarci, la nostra risposta meritocratica al sapere come panacea di tutti i mali, per quello che noi “grandi” non siamo stati capaci di affrontare.
Il mio è un appello accorato a tutti quei docenti che fanno della scuola un luogo di accoglienza dell’essere e a quei genitori in grado di guardare oltre una scheda, specchio per le allodole. Non è con quella che i nostri figli sapranno abitare una vita felice.
Tratto da: https://comune-info.net/il-successo-scolastico/