di Francesco Bennardo.
Quando il 12 aprile del 1945 venne a mancare l’amatissimo presidente Franklin Delano Roosevelt, che col suo carisma era grossomodo riuscito a tenere serrati i ranghi, il Partito Democratico statunitense apparve diviso in tre tronconi: una centrista, moderata, in fondo non molto dissimile da vasti strati del Partito Repubblicano; una di sinistra, più progressista, che ebbe molte sponde ad Hollywood e tra i giovani; ed una segregazionista, quella dei cosiddetti Dixiecrat. Sembrerà strano, ma inizialmente la segregazione razziale aveva più sostenitori tra i democratici, soprattutto quelli del Sud ("dixie" è un vocabolo assimilabile al nostro "terrone"), che non tra i repubblicani; poi, col passare del tempo, i dixiecrat o sono passati coi repubblicani (come Strom Thurmond, che rimase senatore fino a 101 anni) o sono tornati all'ovile centrista (come Robert Byrd, in gioventù esponente del Ku Klux Klan, in vecchiaia presidente pro tempore del Senato e sostenitore di Obama)...
Da quel momento in poi, la corrente centrista ha sempre cercato di soffocare sul nascere la corrente progressista; anzi, direi che i centristi democratici sono stati il principale deterrente delle spinte verso una politica pacifista, pluralista e di sinistra. Ed avevano iniziato a pensarci presto, quando ancora Roosevelt era vivo: alle presidenziali del 1944 l’anziano e malandato leader era stato costretto, in considerazione di una sua imminente dipartita, a sostituire il progressista Henry Wallace – favorevole, tra l’altro, a una politica distensiva nei confronti dell’URSS – con il più “rassicurante” Henry Truman (quando poi, poco più di cinque mesi dopo, FDL si accomiatò dal mondo, fu proprio Truman a subentrargli automaticamente come prima carica dello Stato).
Sostanzialmente, i centristi si presentavano come dei repubblicani “ripuliti”, che non dicevano le parolacce e sapevano usare forchetta e coltello. Robert Wallace, il principale esponente del segregazionismo e politico influente dei democratici, nel 1968 (il Sessantotto!) commentò così la sfida tra Nixon e Humphrey: "Non c'è un briciolo di differenza tra il candidato repubblicano e quello democratico". Da un punto di vista ideologico e programmatico, aveva ragione; certo, difficilmente Humphrey avrebbe causato uno scandalo come quello del Watergate, ma così ci stiamo rivolgendo al piano etico più che a quello politico.
Quattro anni dopo, per la prima e unica volta, alle primarie democratiche vinse un candidato progressista, George McGovern, più per demeriti avversari che per meriti propri (i suoi principali rivali come Ed Muskie e Ted Kennedy furono messi fuorigioco da problemi legali): da quel momento partì una campagna di delegittimazione nei suoi confronti da parte del suo stesso partito: nacque la coalizione "tutti tranne McGovern", ben 6 democratici rifiutarono pubblicamente di fargli da vice e si diffuse il fenomeno dei "democratici per Nixon", ossia degli elettori dell’Asinello che si turarono montanellianamente il naso e votarono per il leader della fazione opposta.Lo stesso Nixon non fece neanche campagna elettorale, non ce ne fu bisogno: McGovern cadde subito, rovinosamente, per fuoco amico.
Le cose, da quel momento in poi, non sono molto cambiate: ogni volta che nasceva nella società civile un fenomeno nuovo, progressista, libero e antisistema, la corrente centrista del partito democratico l'ha preso, l'ha "ripulito" da tutte le possibili incrostazioni rivoluzionarie (non sia mai!) e l'ha presentato al grande pubblico sotto forma di narrazione simpatica, pastello, politicamente corretta, molto innocua per i palazzi del potere.
Fanno quadrato tra di loro, i centristi: tutti contro Sanders nel 2016, battendolo con il sistema dei grandi delegati, un sistema che non definisco feudale per non offendere i feudatari (basti citare questo dato: in una sfida in cui si doveva arrivare a 2.300 delegati, la Clinton partiva da 569 e Sanders da 44; la contesa era, evidentemente, indirizzata e falsata); tutti contro Sanders nel 2020, battendolo grazie all'incongrua alleanza di tutti i big democratici (chissà perchè Elizabeth Warren, pur essendo molto più simile a Sanders che non a Biden, ha scelto di appoggiare quest'ultimo...).
Insomma Sanders è stato sconfitto dai gerarchetti quattro anni fa e dai gerarconi adesso. Ed ovviamente a Sanders e ai suoi è stata chiesta la disciplina di partito, perchè di fronte alla guerra a Trump non si poteva disertare. E così ha vinto Biden. Mi vengono in mente almeno tre esponenti repubblicani più progressisti di lui (padre e figlio Paul e Hagel). Ora lo vedremo all'opera, ma il passato recente e meno recente degli "asinelli" non mi lascia ben sperare.
A conferma di questo mio pessimismo giunge l’intervista del New York Times ad Alexandria Ocasio-Cortez, deputata democratica e paladina della corrente progressista: di fronte alla domanda su quanto aperta sarà l'amministrazione Biden nei confronti della sinistra – quesito che conferma indirettamente la non appartenenza dell’ex vice di Obama a quest’area politica, alla quale altrimenti sarebbe automaticamente “aperto” – la parlamentare eletta nel Bronx risponde “Non ne ho idea. E non c'è nulla di personale in questo. È solo che la storia del partito tende a essere sempre la stessa: ci entusiasmiamo per la base che ci permette di essere eletti.Poi, però, subito dopo quelle comunità vengono abbandonate”. E poco dopo rincara la dose: “Gli ultimi due anni [di vita del partito] sono stati alquanto infelici. A livello esterno abbiamo vinto, ma a livello interno il clima è stato estremamente ostile nei riguardi di qualsiasi cosa fosse vagamente progressista”.
Nient’altro da aggiungere, almeno per ora.
Francesco Bennardo, classe 1987, è insegnante di Filosofia e Storia nei Licei. Ha pubblicato le raccolte poetiche "Invettive apotropaiche" (2015) e "Colpi di grazia" (2017) e i saggi storici "La massoneria siciliana nel XIX secolo" (2016) e "Il diavolo e l'artista. Le passioni artistiche dei giovani Mussolini, Stalin, Hitler" (2019).